Cagliari, 24 Settembre 1955.
Mi chiamo Mario, ho ventisei anni.
Questa è la scuola più antica della città. Si trova nella via di cui porta il nome, Giuseppe Manno. Stamattina ho chiuso il portone della casa dove vivo da quando sono nato, e in quindici minuti mi sono ritrovato tra questi banchi. Sono i primi giorni di didattica, sia per voi che per me, che ho appena cominciato il lavoro per cui ho studiato per mezza vita.
Di tanto in tanto, quando il cielo è coperto dalle nuvole, percorrendo quei cinquecento metri in salita, mi capita di ritornare con la mente al passato. Passo dinanzi alla chiesa di Sant’Antonio Abate e ripenso a quando nel 1943 fui ospitato -contro voglia, per giunta- nel suo rifugio anti aereo. Fu lì che conobbi il mio primo amore, una suora con più affinità con Lucifero che con Gesù. Mi addentro nel silenzio e sento i miei passi ticchettare nel marmo gelido della navata, riservo una risata alla statua del santo dietro all’altare, resto un momento in silenzio a godermi gli odori, ancora così simili a quelli di un tempo.
La città sta cambiando velocemente, sta diventando più grande, più moderna. Ogni giorno, squadre di muratori si ammazzano di fatica e tirano su pareti, stendono intonaci e costruiscono tetti. Mi manca un po’ l’aspetto della mia vecchia casa, con le sue mobilie artigianali e i suppellettili che sembravano gli scarti di una fabbrica, ma un inglese con una buona mira ci ha costretto a ricostruirla. E devo dire che il mio padrino umbro, il miglior muratore del mondo, ha fatto un ottimo lavoro.
La mia vita è stata strana. Non solo per la guerra, per l’occupazione, i bombardamenti e lo sbarco degli Alleati. Ho una famiglia che cominciò a dissolversi ben prima dell’inizio del conflitto, con la morte della Mamma. Poi la partenza sotto le armi di Papà, il rapimento del mio migliore amico e tutto quello che ho affrontato per cercarlo. Durante il conflitto, più che dalle bombe e dalle mitragliate, pensavo a fuggire dai posti sicuri. Non lo facevo di proposito, ma quando passavano gli aerei, io mi trovavo all’aperto, e anche se me la sono vista brutta, nulla al mondo mi avrebbe potuto fermare.
L’amico per cui ho rischiato la vita si chiamava Mario il Brigante, ed era un cane Sanbernardo. La mia più grande fortuna. È stato nella disperata ricerca di salvarlo, e nel rifiuto di distaccarmi da lui, che ho trovato la mia strada e sono diventato ciò che sono.
Ho conosciuto la solitudine, quella più oscura e disarmante, ma ci ho fatto a cazzotti, ve lo posso assicurare, e combattendoci contro, inseguendo disperatamente il mio diritto alla vita, ho incontrato delle persone che mi hanno teso la mano. Capite? È battagliando per il mio Mario il Brigante che ho scoperto di non essere solo.
Ed è questo, cari ragazzi, che voglio dirvi: mostrate i pugni e non sarete mai soli.
Voglio chiudere questo mio discorso di inizio d’anno con questa poesiola, che scrissi una decina d’anni fa, per un compito che mi assegnò un professore quando ero al vostro posto. L’ho trovata nel baule della cantina, mentre rovistavo tra i miei vecchi oggetti.
Se tu pensi che la vita
Che tu credi ti odi a morte
Su di te si sia accanita
Aiutata dalla sorte
Se ti senti creditore
Del calore di una madre
Se le notti furon Magre
Dell’affetto, dell’amore
Questa terra le sventure
Coi suoi frutti ha ripagato
E a ogni uomo ha regalato
A quattro zampe le creature.
——
L’avventura di Mario, del suo cane, della suora e di tutti i suoi amici è online, pubblicata in capitoli su questo sito, nella sessione Racconti a Puntate.
Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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