Bum!
Una piccola nube, odore di polvere da sparo e un lamento canino. Mario sentì il cuore spaccare le costole e venire fuori dal petto, il cane fece un balzo indietro e restò pietrificato. Nel mentre i tedeschi impugnarono dei piccoli revolver che avevano alla cintura, Ponziano si girò e sparò un altro colpo, mirando ai loro piedi. Dalla piccola cartuccera nella tracolla, estrasse dei proiettili, armò nuovamente il fucile e fece fuoco un’altra volta, sempre tenendo bassa la canna. I tedeschi restarono a terra coprendosi il capo con le mani.
- Ad ammazza’ uno sconosciuto co’ la divisa diversa dalla mia pe fa’ contenti li governatori nun ce so bono, ma a chi punta una pistola su li fratelli mia je sgarro lu culu! Guai a voi!- Gridò, poi guardò i suoi fratelli, uno era un ragazzino, l’altro un quadrupede.
Mario non ebbe il tempo di riordinare le idee: Il Brigante gli era sopra, la lingua che scorreva sul viso e quello stupendo ringhio felino.
- Daje, pomiciate dopo, damose, che quisti sparano!
- Come facciamo? Non ci stiamo su quella moto!
I tedeschi, col culo per terra, non capirono se fossero vivi o al cospetto del loro dio nazionalsocialista. Il Colonnello raccolse la sua pistola e armò il cane. Sparò due copi. Il rombo di un aereo squassò la linearità delle sirene, rompendo la temporanea calma dopo l’inferno. Di nuovo altre esplosioni, potentissime onde d’urto riscaldavano l’aria, che tornava a raffreddarsi immediatamente, finendo per dividersi in due sbattendo sui visi di quegli improbabili contendenti.
- Guida te!, Gira la manopola destra p’accelera’ e non cambia’ mai marcia, se no s’impenna, co’ te che non sei bono.
Mario saltò in sella, dallo specchietto vide Ponziano che prendeva in braccio l’animale, afferrandolo dalle anche. La sua maglia era macchiata di rosso al centro della schiena. A fatica salì sulla moto, abbracciando forte il Brigante e reggendo con gli indici due lembi delle camicette di Mario. Il cane, quando il frastuono delle bombe riprese, nascose la testa riprese a lamentarsi.
- Ponziano, sei ferito!
- Ce lo so, ma tu non te ferma’!
Le bombe continuarono a cadere, uno spezzone toccò terra a trenta metri da loro, la ruota anteriore della moto si spostò di lato strisciando il copertone, ma riuscirono a proseguire. Il fischio di due proiettili sfiorò le loro orecchie. Il viale alberato ora era quasi completamente buio, l’unica fonte di luce veniva da un albero in fiamme, col fumo nero che si espandeva longitudinalmente sulla strada, e la moto vi passò attraverso.
- Pozzino arde tutti l’inglesacci, no l‘alberi nostri!
Una bomba cadde davanti a loro, e furono investiti da centinaia di lapilli, ma nessuno fu così grande da causargli dei danni. Mario vide all’ultimo momento la voragine che aveva provocato, la deviò con una virata improvvisa, per miracolo non caddero a terra. Ponziano sentì delle intense fitte nel petto, e il sangue che fuoriusciva al ritmo delle pulsazioni.
- A Brigante, visto che bucio de culo?
Diede delle indicazioni al giovane pilota, mentre il dolore si faceva rapidamente pungente e persistente come una scottatura. Il motore sembrava domandare pietà, dal tubo di scappamento uscivano folate grigie dello stesso odore della polvere pirica che stava cadendo dal cielo. Si allontanarono dal viale alberato, arrancarono in salita per alcuni minuti. Sulla fronte del soldato colavano delle enormi gocce di sudore gelido. Il cane continuava a nascondere il muso, Ponziano provava a stringere, ma le forze iniziavano a diminuire.
Giunsero finalmente sotto un colle incolto. In quel punto la pianura si sollevava all’improvviso su un’area tappezzata da steli di piante dal colore giallastro, in mezzo alle quali, come enormi funghi spuntati dopo il giudizio universale, si intravedevano delle rocce scavate dall’uomo.
- Semo in tre! Do’ ce sta posto? Hula Hop! Hula Hop! Ce sentite? Semo sordati!- gridò, mentre i muscoli si affievolivano lentamente.
Scesero dalla moto, il Sanbernardo si stiracchiò, gli aerei continuavano a solcare i cieli sopra di loro.
- Da questa parte – gridò un uomo
Mario seguì Ponziano, osservandolo incedere faticosamente, ricurvo su sé stesso. Il cane sempre attaccato alle sue gambe. Salirono per qualche metro; intanto, alle loro spalle la prospettiva si approfondiva e il panorama sulla laguna di Santa Gilla rendeva l’idea di quello che stava accadendo. Il cielo era unito alla terra da un’enorme nube di fumo. Al centro era più consistente, in basso prendeva una particolare tonalità cromatica, data la mescolanza con la polvere degli edifici sbriciolati; in alto invece, si distendeva come un velo bianco e chiudeva la città sotto un’enorme cappa.
Il Detto “ne sta scendendo il mondo”, tanto usato durante forti piogge, tempeste di vento o incendi, sembrava essere divenuto realtà.
Raggiunsero una sorta di stanza ricavata nella roccia. Quello che videro li sconvolse. Una donna era seduta in un angolo, sulle gambe teneva dolcemente la testa di un bambino, che con gli occhi chiusi tremava e scattava violentemente, si poteva quasi sentire il rumore delle ossa che vibravano. Sul lato opposto, abbandonati sotto la roccia, tre persone dal viso così smagrito e terrorizzato che fu difficile distinguere se fossero uomini o donne, ragazzi o adulti. Ma i nuovi arrivati non erano da meno. Gli occupanti di quel rifugio si trovarono davanti uno strano terzetto: un cane enorme, un tipo grasso e un ragazzino. Ponziano indossava soltanto dei mutandoni che arrivavano al ginocchio, fermati dall’elastico dei calzettoni militari, e sopra una maglia di lana ingiallita e piena di buchi. Una grande chiazza rossa continuava ad allargarsi sul petto. Il viso madido di sudore, un colorito cianotico e gli occhi sbarrati per il dolore. Il ragazzo portava delle camicie, tutte una sull’altra, strappate sul colletto, coi merletti oramai disfatti e dei ricami sulle maniche. Per poter camminare senza rischiare di cadere, teneva la sua gonna arrotolata con la mano destra. Prontamente un uomo si alzò in piedi e aiutò Ponziano a sdraiarsi. Saltarono fuori delle pezze, le misero sulla ferita, mentre il militare cominciava a smettere di contrarsi e addolciva lo sguardo.
Una signora indicò un grande cumulo di fumo nero a due chilometri di distanza, al suo interno dei lampi intermittenti: le fiamme dei carburanti dei treni fermi alla stazione.
- Era pieno di persone in partenza – disse la donna, portandosi una mano alla bocca. In lontananza si avvertiva un rumore cupo e sordo.
Gli aerei si allontanarono e non tornarono. Mario si sdraiò di fianco al suo amico militare, gli prese la mano, il Brigante poggiò il muso sulla sua gamba, e muovendo la pelle della testa, rivolgeva i suoi occhi dell’amore verso i due salvatori, come se, nel mondo parallelo dove vivevano i cani, per il male non vi fosse spazio.
- Je devi vole’ un gran bene a ‘sto cane, ve’? Ora capisco perché.
- Sì. Lui è la mia Ada.
- Che è? Poi so’ io che non se capisce niente quando parlo, eh – e perse i sensi
Mario scoppiò a piangere. Usò la grande gonna per pulirsi il viso, reso appiccicoso dal sangue mescolato con le lacrime. Nessuno disse nulla, il cane restò a guardarlo, mugolando. E si fece sera.
Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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