Arrivarono alla stazione, girarono attorno alla piazza per alcuni minuti. Donne che tenevano per mano un bambino, che a sua volta ne teneva uno più basso e così via, anziani con delle enormi scatole in spalla o sopra la testa, un uomo che faticosamente trasportava una macchina per cucire in ferro pesante. Intere famiglie che si stringevano come in una grande catena fatta di paura e speranza, ed avevano una premura matta. Tutta la città era in fila per partire e la stazione era un enorme carnaio in preda alla confusione. Gli operatori delle ferrovie cercavano di destreggiarsi come potevano, perdevano il fiato a forza di usare il fischietto e cercavano di divincolarsi dalla folla che gli si accalcava attorno in cerca di informazioni sui convogli che nel mentre vibravano e rumoreggiavano, sbuffando nubi di fumo nero. Gli unici militari presenti erano gli italiani, di tedeschi nemmeno l’ombra. Ponziano puntò verso l’ingresso della stazione, deviò sulla sinistra ed entrò in un cancello. Costeggiò le banchine affollate, proseguì oltre le aree di salita e discesa, correndo parallelo ai binari, che ora erano liberi e iniziavano a slegarsi, per diramarsi nelle diverse direzioni. Entrarono in una strada bianca, ma non rallentarono. A un certo punto le erbacce che dividevano quel percorso dai recinti si diradarono, così la moto poté girare a destra e attraversare le rotaie, tagliando il percorso dei treni in uscita dal capoluogo. Sbucarono in mezzo a una lottizzazione di case rabberciate alla bell’e meglio, ed infine uscirono su un viale alberato.
Lo scenario cambiò radicalmente. Ai lati della strada, parcheggiati ordinatamente sotto gli alberi sempreverdi, ben nascosti dalle fronde, decine di mezzi militari tedeschi. Moto, camioncini, carri blindi, furgoncini con il supporto per le mitragliatrici, automobili corazzate. Il comando degli alti ufficiali tedeschi.
A parte i mezzi, per strada non vi era anima viva. Proseguirono a passo d’uomo, Mario si alzò, assestando i piedi nelle pedaline in metallo, riusciva così a vedere oltre il muro. Una serie di capannoni divisi da strette strade in terra battuta formavano un grande agglomerato, ogni blocco era collegato a un altro da un fitto reticolato di fili di metallo, ai quali erano appesi degli indumenti civili. Braghe, sottovesti, calzoni, mutandoni: il quartier generale della Wehrmacht era stato mascherato come un piccolo centro abitato. Mario si accorse che la moto procedeva pericolosamente a zig zag, girò il capo e vide che Ponziano, curioso, aveva lasciato la guida e si era alzato in piedi per sbirciare oltre il muraglione.
- Furbi li tedeschi, ve’? Stanno a fa’ finta de esse poracci cajaritani, così sperano che l’inglesi e l’americani li lassano perde e ce lanciano le bombe solo a noi. ‘Sti bavosi!
La struttura si estendeva in lunghezza per molte centinaia di metri, ma a metà il muro si abbassava e lasciava posto a un grande cancello in metallo. Sulle grate era stata saldata una svastica, sotto alla quale campeggiava un’iscrizione in tedesco. Ponziano rallentò fin quasi fermarsi, coi piedi aiutava la moto a tenersi in equilibrio. Finalmente videro alcuni soldati, poi udirono dei rumori. Mario sentì avvicinarsi un fischio, ritmato da una sorta di percussione irregolare che si sovrapponeva. Fu solo un istante, il suono battente si rese più riconoscibile, e proprio mentre Mario s’avvedeva che si trattava dell’abbaiare del suo cane, il fischio divenne più intenso: era la sirena antiaerei.
Mario afferrò il braccio di Ponziano, tirandolo a sé, costringendolo così ad una rischiosa curvata a destra. Ci mancò poco che girasse accidentalmente la manopola ed accelerasse, portando i loro visi a stamparsi contro la svastica. Tennero miracolosamente l’equilibrio, si fermarono, il suono della sirena fu coperto da quello bitonale dei motori. Il sole fu oscurato dal fumo dei tubi di scarico, gli aerei Alleati volavano così basso che le loro ombre erano proiettate a terra, come fantasmi che rapidi si aggirano per la città. Mario saltò giù dalla moto e si aggrappò al cancello; quando Ponziano se ne accorse, il ragazzo era già in cima alle inferriate.
- Aia! Che ve pija un cancaro!
Gridò il soldato umbro, come se avesse ricevuto uno scappellotto all’improvviso.
- Mario! scendi da lì! Annamosene!
Il giovane non avrebbe mai potuto sentirlo. Il frastuono era così intenso che il fumo che si abbassava sopra alle loro teste pareva fosse composto da miliardi di piccole bollicine grigie, che posandosi al suolo esplodevano, detonando in microscopiche botte.
- Brigante! Brigante!
Si agitava sopra quel cancello come un gorilla impazzito. Attaccato agli spunzoni in ferro battuto, portava avanti il petto rischiando di infilzarsi le costole. Aveva visto il suo cane, mentre in cielo quei maledetti affari potevano dividere per sempre le loro vite. Intanto gli spezzonamenti continuavano, e una pioggia di fuliggine e detriti cominciò a posarsi sulle strade.
Ponziano scese dalla moto, col suo incedere goffo e appesantito arrivò sotto Mario, afferrò quella specie di vestito e cercò di tirarlo giù, ma nulla, il ragazzo non mollava, continuava ad agitarsi e a gridare.
- Mannaggia a li potti e a chi li fa!
Intanto le bombe si susseguivano, e Ponziano sembrava le contasse, scandendo ogni botto con un’imprecazione. Continuò a strattonare il suo giovane amico, ma riuscì solo a sciogliere il grande nodo tra le gambe e a far stendere la lunga gonna.
Vedendolo smanacciare e saltellare, con quell’abito da zingaro colorato e voluttuoso, probabilmente i tedeschi avrebbero dimenticato per un momento l’inferno sotto al quale si erano andati a cacciare, e ripensato alle divertenti serate, a ridere davanti agli spettacoli di ballo dei rom, nei ghetti della Polonia.
Ponziano non si arrese. Usò la gonna di Mario per aiutarsi, e facendo un immane sforzo salì sul cancello.
- A tede’, e ridateje ‘sto cane, che ve costa, così se n’annamo!- gridò a squarciagola.
Le bombe cominciarono a cadere sempre più vicino, con un fragore simile a quello di enormi sacchi di vetro che battevano a terra, il fumo si fece più intenso. Intanto i tedeschi erano spariti dalla loro visuale, e con loro anche Mario il Brigante. Il rumore cessò improvvisamente, e Ponziano, stremato, scese a terra. Mario lo imitò, col fiatone e il viso illuminato da due occhi fiammeggianti. Come a raccontarne lo stato d’animo, un rivolo di sangue percorreva la sua fronte, andò rapidamente ad incanalarsi per cadere a lacrima sulle guance: la ferita di due giorni prima, per l’agitazione si era riaperta.
- Dovemo anna’ via, ce tornamo domani da ‘sti tedeschi.
Mario non si mosse, continuava ad ansimare, una smorfia di rabbia dipinta sul volto, come un fermo immagine, animato soltanto dal sangue che gli colorava le labbra e gli incisivi. Ponziano gli prese il braccio, ebbe un riflesso improvviso, con uno scatto animale lo spinse via, il giovane inciampò e cadde, strisciando il capo sul tronco di un albero, contemporaneamente un ordigno cadde a pochi passi da loro, oltre il muro. Una nube di polvere e detriti esplose e li travolse, Ponziano venne capovolto sopra Mario e restò immobile.
- Ponziano! Ponziano! – non si mosse, restò a guardarlo per dei secondi che sembrarono ore, prese a schiaffeggiarlo con forza, gli levò il caschetto, tirò i capelli, le orecchie, pizzicò la schiena, ma nulla.– Ponziano! Non mi lasciare anche tu, imbecille!
Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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