L’urto della bomba aveva divaricato le assi portanti del cancello del cortile, così Mario riuscì ad uscire senza bisogno di scavalcare. Girò subito l’angolo e costeggiò le mura di cinta, il palo dove si arrampicava era ancora in piedi. La base conficcata nella terra. Si aiutò con una pietra e accanto scavò una piccola fossa. Prese il libro, si concesse un minuto per immergersi un’ultima volta tra le pagine dell’avventura che aveva appena vissuto, laggiù, sulle rive del fiume Gange. Tornò al capitolo dove Salgari raccontava degli incubi di Tremal Naik, e di come aveva deciso di partire alla ricerca della sua amata Ada. Con lo stesso spirito del Cacciatore di Pitoni, era quindi partito, senza portarsi dietro rimorsi o ripensamenti, ma solo un nuovo modo di interpretare le sue emozioni, a cui per la prima volta aveva associato spirito e forme. Seppellì il libro.

 

Si diresse verso la stazione dei treni. Nessuno fece caso a lui e a come era conciato, i pochi passanti in giro avevano ben altro per la testa. Passò dinanzi a un convoglio di soldati tedeschi, fermo all’angolo di una via che un tempo era molto trafficata, oggi deserta e triste. Si guardò intorno, la città era cadeva a pezzi. Un odore di calce e bruciato aleggiava nell’aria. Delle palazzine ottocentesche che una settimana prima abbellivano le strade, restavano solo dei cumuli di polvere. Le case dei suoi compagni di scuola, i palazzi pubblici e le chiese, tutto era andato perduto. La lingua continuava a seccarsi, ogni piccola folata di vento sollevava la polvere delle macerie riverse per terra.

  • Aoh! Mario!

Sentì quel richiamo e impiegò alcuni istanti per capire da dove provenisse e ricordare a chi appartenesse. Ma ancor più, gli parve fosse passata un’eternità dall’ultima volta che qualcuno aveva pronunciato il suo nome.

  • Mario! So’ io!

Una sagoma rotondetta e dal passo pesante correva verso di lui, un viso cicciottello e lo sguardo di chi, dentro una guerra, aveva la stessa utilità di uno scarafaggio a colazione.

  • Chi sei? Ti conosco?
  • So’ quillu che t’ha trovato!
  • Ma quando? Chi sei?
  • So’ quillu de lu camion, quillu che t’ha trovato all’aeroporto!
  • Ah, ora ricordo. Come ti chiami?
  • Ponziano me chiamo, so’ de Spoleto.
  • E che cosa è Spoleto?
  • È ‘na cittadella in Umbria. M’hanno mannato qui perché de là non m’arcapezzavo. M’hanno fatto partì per tenemme lontano dal fronte e me so’ artrovato in mezzo a st’inferno.
  • Santa pazienza, ora ricordo: sei quello che parla strano.
  • Daie, che ce fai in giro? Non dovevi sta’ dalle sore?
  • Mi hanno congedato. Dove sono i tedeschi?

Ponziano si fermò un istante per prendere fiato. Strinse la tracolla del fucile e cercò di sistemarsi la divisa, ma non vi riuscì. I pantaloni erano appesi sul sedere, una gamba era infilata dentro gli anfibi, l’altra no, la giacca aveva il colletto piegato in dentro e il cappello era al contrario. Quando finì tornò a guardarlo, e scrutandone l’abbigliamento aggrottò la fronte e rimase fermo come una fotografia. Per un momento dimenticò la domanda, poi si riprese:

  • Che vor di’ ‘ndo stonno li tedeschi? Staranno in Germania, che ne so io.
  • I tedeschi, i soldati tedeschi, dove hanno la base, ora? Lavoro per loro!
  • Eh no, pottu, tu non me ce pigli pe’ li fondelli a anna’ e veni’, tu stai ancora a cerca’ lu cane tua.

Mario sospirò, con un movimento fluido e agile gli voltò le spalle e fece per allontanarsi. Il soldato riprese a correre, lo sorpassò e gli si parò davanti, stavolta tenendo il fucile in mano.

  • Alt! Te ordino de non cammina’ più.
  • Vuoi spararmi? Che ti ho fatto?
  • A Mario, è pericoloso annassene in giro da soli. Cascano le bombe, come te lo devo di’?
  • Senti, io non ti capisco quando parli. Non sto andando in giro, me ne sto andando, va bene? Devo ritirare la mia paga dai tedeschi, e poi partire col treno verso casa di mia Nonna.

Questa fu la prima bugia che gli venne in mente, per togliersi dai piedi quell’invadente soldato. Gli girò attorno e riprese a camminare, quello restò un attimo di sasso, poi gridò:

  • Ahò, te pare che un sordato te dice da statte fermo e te ne vai? Questa se chiama, ehm… nun lo so come se chiama, ma nun va bene.
  • Mi sai dire dove fanno base i tedeschi?
  • No! Cioè, te lo saprei di’ ma non voglio.
  • E allora ciao, mi fai perdere il treno.

In quella sorta di rincorsa erano sbucati nel Largo Carlo Felice, una grande via in discesa, che si apriva sul porto, ed in lontananza lasciava intravedere la stazione. Le navi avevano tutta l’aria di non essere pronte per salpare, mentre i palazzi affacciati sul mare erano bucati e scoperchiati. Mario procedeva, incantato dalla bellezza del mare, che si mostrava pieno di speranze anche in tempo di guerra. Da come il sole si rifletteva sull’acqua, dai bagliori scintillanti che vi si innalzavano, si poteva intuire che la Primavera stava per arrivare. Anche se dal largo partivano gli aerei che portavano la morte alla sua città, Mario come per sua natura ne era attratto, forse anche per questo si era innamorato così follemente dei romanzi di Sandokan e dei suoi fedeli pirati. Continuò ad avvicinarsi alla stazione, nel frattempo Ponziano era salito sulla sua moto e lo seguiva, lentamente.

  • Senti, ti supplico in ginocchio. Ti accompagna il sottoscritto dai tedeschi, ma ti prego, non andare in giro. Monta sul ciclomotore, cortesemente.
  • Ma come parli?
  • Me sto a sforza’ da parla’ bene, così non me dici che non me capisci.

Salì in sella. Fece la prima accelerata, il mezzo si inclinò con la ruota anteriore verso l’alto, il vento immediatamente cominciò a sbattere sui visi e gli occhi di Mario si riempirono di lacrime. La moto si fermò subito, Ponziano si levò la maschera protettiva da motociclista e la porse al giovane passeggero, poi si girò e disse:

  • Tiemme lu fucile, che me dà noia, quanno guido.

Foto copertina: http://www.comunecagliarinews.it/reportage.php?pagina=43&sottopagina=182

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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