Mario si svegliò con un mal di testa pulsante e fortissimo. Sentì una punta sopra la fronte, come se avesse una fasciatura stretta, sotto alla quale si era incastrato un sasso. Si toccò e sentì dolore. Provò ad alzarsi, e dovette aiutarsi con le mani: le gambe erano intorpidite, la coscia destra impanata di polvere e intonaco. Restò in piedi per alcuni secondi, cercando di guadagnare equilibrio. Si spostò verso l’esterno, barcollando. Arrivato fuori, una folata di vento lo aiutò ad accorgersi di essere nudo. Il petto completamente segnato da lunghe striature rosse, vi passò una mano sopra e delle fitte lancinanti lo fecero scattare. Tornò dentro.

Restò sconvolto a vedere la scalinata, ma era proprio al piano di sopra che era diretto. Salendo, rischiò di cadere ad ogni scalino, ansimava e la testa gli scoppiava. Entrò in uno degli alloggi dei tedeschi e aprì tutti gli armadi, non trovò nulla. Frugò ovunque, invano. Andò nella sala da bagno, e proprio sotto la finestra, un enorme baule color porpora restava socchiuso, dalle fessure traboccavano variopinti brandelli di stoffa, gettati lì alla bell’e meglio. Come quando si sgombera un magazzino disabitato, o una casa occupata. Lo aprì, ne rovesciò il contenuto sul pavimento e iniziò la cernita. Camicette da donna, delle gonne, sottovesti, cappelli rossi, guanti, e infine un grande vestito grigio. Nulla che potesse indossare un uomo. Sospirò, si girò e si guardò allo specchio. I capelli erano completamente intrisi del suo sangue oramai rappreso: dal centro della fronte partiva un taglio dalla forma di un sorriso e si addentrava tra i capelli. Aveva iniziato a coagularsi, creando un groviglio di crosta e peli, non sembrava comunque una cosa troppo grave. Si guardò il busto. La pelle tigrata e puntinata come la barba rasata da due giorni. Escoriazioni e lividi violacei, che al tatto parevano pieni di liquido. Aprì il rubinetto, l’acqua scorreva, gelida, ma c’era. Si bagnò la testa e i capelli, pulì il collo e inumidì il petto, infine si asciugò con una delle camicette del baule.

Tornò alla catasta di indumenti. Cominciò a strappare i colletti delle camicie, in modo che potessero entrargli. Ne mise alcune, una sopra l’altra. Poi prese il grande vestito grigio, vi infilò la testa, ma non riuscì a farla sbucare da nessuna parte. Provò ad entrarci di piedi, e piano piano lo indossò. La grande gonna fluente e morbida arrivava alle caviglie, a toccare il collo dei suoi anfibi. Prese due lembi tra le gambe e li legò tra di loro, poi strinse. Spostò il grosso nodo in modo che non lo infastidisse sotto il cavallo, e tornò a specchiarsi. Aveva l’aspetto di uno di quei marajah raffigurati nei libri che aveva letto a scuola. Tornò di sotto. Considerò la possibilità di uscire in città e cercare i soccorsi, ma questo avrebbe comportato un suo nuovo internamento in qualche struttura d’emergenza, magari fuori Cagliari, e la fine delle possibilità di trovare Mario.

Restò lì, a guardare nel vuoto, mentre il sole calava velocemente e il freddo si faceva più intenso, le immagini a cui aveva assistito iniziavano a proiettarsi nella sua mente. Uscì in giardino, provò ad allungare i muscoli stirandosi come poteva. Il dolore degli ematomi si fece sentire, ma riuscì a sopportarlo. Notò il cancello, ricurvo, con la forma di una enorme palla. Si avvicinò, per cercare di capire cosa fosse successo, dal momento che l’ultima cosa che ricordava era che stava scavalcando. Fuori, una grande voragine nel manto stradale, delle case semi distrutte e odore di combustione. Entrò dentro per riordinare le idee, e in terra notò qualcosa. Raccolse il suo libro.

La copertina si era completamente spellata, e la rilegatura stava abbandonando il faldone di carta, ma il volume era ancora intatto. Tenendo quell’oggetto tra le mani, il primo regalo ricevuto dopo tanto tempo, ripensò a Suor Giulia, la sua fedele amica. Aprì una pagina a caso e lesse le prime righe.

Poi pianse.

Riconobbe all’istante la penna del suo narratore preferito, colui del quale sentì le prime frasi per bocca di suo papà. Leggere delle guerre di altri, di eroi dalla pelle d’oro, degli amori e dell’amicizia era il modo per tornare con la mente ai giorni felici. Entrò in casa e si mise al sicuro dentro il mobile che lo aveva protetto poco prima. Aprì la prima pagina: La capanna del Cacciatore di Pitoni, il Gange, l’isola oscura, il tempio da espugnare per salvare l’amata Ada.

I due giorni seguenti passarono veloci, col suo libro per compagnia. Quando era buio accendeva qualcuna delle numerose candele di cera che i tedeschi avevano lasciato in casa. Riuscì a mangiare aprendo le scatole rinvenute in cucina. Dormì pochissimo, non fece altro che leggere, viaggiando con l’immaginazione, con la brama di chi non ha altra ragion di vita che arrivare alla fine. La tigre di Tremal Naik, Darma, fedele compagna e abile guerriera, il suo amico e servo Kammamuri il maharatto, le corse a perdifiato a zig zag tra gli alberi della Giungla Nera per sfuggire ai lacci degli strangolatori. E poi, l’amore, quella strana cosa di cui aveva letto, ma che non aveva mai provato, nella sua ancor giovane vita.

 

Erano le dieci del mattino del 28 Febbraio 1943, quando Mario girò l’ultima pagina del manoscritto ricevuto in dono da Giulia. Suor Giulia, l’unica persona che era stata capace di essergli amico. Restò immobile per alcuni istanti, poi uscì dal suo nascondiglio, con cura incastrò il libro sotto la gonna, e disse:

  • Avevi ragione, Suor Giulia. Io sono Tremal Naik, il Brigante è la mia Ada e i tedeschi sono i Thugs.

Decise così di rimettersi alla ricerca.

 

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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