Mario fu svegliato dalle vibrazioni di un motore. Aprì gli occhi e si ritrovò all’interno di un camion militare.
- Si è svegliato!
Intorno a lui dieci soldati italiani, con le armi tra le mani. Uno di loro, un tipo col viso paffuto, dei capelli ricci e un chiaro accento umbro, gli si inginocchiò davanti:
- Pottu, te senti vene?
- Chi sei? Cos’hai detto? – rispose Mario, stropicciandosi gli occhi.
- T’emo trovato addormito in mezzu a l’orzetta.
- Senti, io non ti capisco. Dov’è Mario?
- Chi è Mario?
- Il mio cane.
- Eri da solo. Come ti chiami?
- Mario.
- No, intendevo, tu, come ti chiami?
- Mario.
Il militare girò lentamente la testa, si tolse il berretto e guardò i suoi commilitoni, poi rivoltò gli occhi e bisbigliò qualcosa che, data l’espressione, poteva essere una preghiera o una bestemmia. O tutt’e due.
- Che te pia ‘n corpu, non me raccapezzo. Chi è che se chiama Mario, te o lu cane tua?
- Tutti e due.
- Ah, mo’ me spiego.
Il soldato umbro guardò ancora i suoi colleghi con la fronte segnata dallo stupore, come se avesse appena parlato col matto del villaggio. Intanto il camion entrò in città. Una leggera foschia ingrigiva tutti i colori, per percorrere alcuni punti delle strade era necessario che i soldati scendessero per sgomberarle dai detriti. Arrivarono nel centro città. Il frastuono delle bombe aveva lasciato il posto alle urla delle persone per le vie. Donne riverse per terra, in preda al delirio della disperazione, bambini che cercavano di aggrapparsi alle gambe degli adulti mentre lavoravano per rimuovere le macerie in cerca di superstiti intrappolati, odore di bruciato.
- Dove abiti? Dov’è tua madre?
- È morta. Abito qui vicino.
- Con chi vivi?
- Con due stronzi. Lasciatemi andare, sto bene.
I soldati ubbidirono, alcuni di loro lo osservarono mentre si allontanava, muovendosi come se invece di percorrere delle strade distrutte in mezzo a persone disperate, si fosse alzato per andare a pisciare durante la notte.
Mario continuò a camminare, lo sguardo sempre fisso verso il vuoto. Vide una piccola pozza di sangue, poco lontano il corpo esanime di una donna sopra un carretto di legno, davanti a lei, un prete recitava l’estrema unzione, mentre la gente attorno cercava di piangere sommessamente per non disturbarlo. Passò davanti alla casa distrutta dove aveva incontrato Mario il Brigante, non si voltò a sbirciare dentro. Scorse un enorme cumulo di massi e pezzi di intonaco. Quella che doveva essere una porta, era posizionata di sbieco, divelta per metà, l’altra metà ciondolava attaccata a un cardine. Dall’interno si scorgevano delle mobilie a terra, un materasso praticamente svuotato dalle imbottiture, un tavolo con tre gambe ed altri pezzi di muro. Quando fu davanti ai resti della sua casa, una donna iniziò a gridare:
- Mario! Mario!- era la sua vicina di casa – è lui! Sant’Efis, Sant’Efis benedetto! Non era in casa! Sta bene!
Dalla polvere delle macerie spuntarono tre uomini, si levarono il cappello e sorrisero per un secondo, dopo di che furono richiamati da un superiore e corsero via. Mario si sentì una mano sulla spalla.
- Tesoro, dov’eri? – proseguì la vicina.
- Non lo so. Cos’è successo?
- Oh, Mario. i tuoi genitori…
- Non erano i miei genitori! – la interruppe. Si voltò e fece per andarsene. Il dolce tocco di una donna lo fermò. Si guardò la spalla e notò subito una larga manica di stoffa bianca. La giovane suora gli prese le mani, guardandolo con gli occhi lucidi e pieni di compassione. Aveva una stazza generosa, la pelle color pesca e l’odore del sapone fatto in casa. Gli sussurrò due frasi all’orecchio, abbracciandolo, mentre lui teneva le braccia penzoloni lungo il corpo. Si staccarono e si allontanarono insieme.
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Era mattina quando fu svegliato dalla donna corpulenta. Il lume di una candela illuminava il viso ancora assonnato, e il suo simpatico e gradevole aspetto. Sul naso un paio di occhiali in osso. Il letto di Mario era al centro di una piccola stanza dai muri bianchi, le pareti salivano a volta su un basso soffitto. La stanza non aveva nessuna finestra ed era buia come la morte. La porta non era altro che una grata priva di maniglia, appeso alla toppa c’era un chiavistello che tentennava, dopo l’apertura della cella.
- Sono stato arrestato? – chiese Mario mettendosi a sedere.
- No, mio caro Mario. Questo è il rifugio anticrollo della chiesa di Sant’Antonio Abate.
- Siamo in via Manno?
- Seguimi.
- Cosa mi succederà, ora?
Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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