Dei carri militari si muovevano all’impazzata. Motociclette procedevano rapide e lasciavano nell’aria l’odore del tubo di scappamento e il rombo che svaniva mentre il mezzo si allontanava. Rumori di anfibi che strisciavano nelle pavimentazioni polverose. I civili incuriositi dal baccano si affacciavano alle finestre, le divise verdi si muovevano come mosche impazzite, intrappolate in una città che tutto poteva essere, tranne che organizzata per difendersi dai velivoli da guerra. In lontananza si udì il rumore roboante di motori a elica, e prima che si potesse capire da dove provenisse, gli aerei anglo-americani erano già passati, mentre i soldati parevano contrarsi per prepararsi al combattimento, ma non successe nulla. Mario se ne stava in un largo viale, a pochi metri da casa sua. Durante quei minuti di frenesia, aveva interrotto il suo consueto avanti e indietro; qualcuno avrebbe potuto pensare che giocasse ad imitare i piantoni militari che si vedevano davanti agli edifici istituzionali. In realtà, quello era l’unico modo per ingannare l’attesa in quelle interminabili ore. Non dormiva quasi più, e quando riusciva a prendere sonno, il sogno era sempre lo stesso: il suo cane. Così, visto che aveva perso interesse per qualsiasi cosa lo circondasse, le sue giornate erano interminabili perdite di tempo: la sua unica ragione di vita era andare al comando della Divisione Sardegna, per incontrare Mario il Brigante.

Dopo il passaggio degli aerei, la città tornò lentamente alle proprie abitudini, i soldati si ricomposero, i mezzi rientrarono alle loro postazioni, finché per Mario non arrivò l’ora di andare a lavoro. Percorse quelle poche centinaia di metri ripensando a un dialogo che tempo prima, quand’era felice, aveva avuto col suo vecchio:

  • Papà, ti piace lavorare?
  • Dipende, su sposu.
  • Da cosa?
  • Se lavoro per me, o se lavoro a cottimo.
  • Che differenza c’è?
  • Se lavoro per me, mi alzo al mattino, mi dedico a qualcosa, e alla sera mi godo il risultato.
  • E se lavori a cottimo?
  • Se lavoro a cottimo, mi pagano in base a quello che ho prodotto.
  • Non è lo stesso?
  • No, perché quello che ho prodotto, poi devo dividerlo col Padrone, e non a metà.
  • E allora perché lo fai?
  • Perché il lavoro è così: ti pagano una miseria, ma il tanto basta per abbassare la testa e tornarci.

Quanto erano vere quelle parole. Il suo lavoro non era né per se stesso, né a cottimo. Ci andava in preda a un perenne contrasto emozionale: non vedeva l’ora di incontrare il suo cane, ma soffriva a vederlo in una gabbia, sotto il giogo di persone che amavano soltanto la sua stazza e ciò che potevano guadagnare da lui. E poi, ogni giorno, a poco a poco, cercavano di distaccarli. Mario era sempre stato abituato a stare da solo, a perdere tempo cantilenando un motivetto appena inventato, o fantasticando. Nonostante questo, non aveva mai sofferto la solitudine, non fino a quando Mario il Brigante era stato rapito.

Arrivò dinanzi al grande portone della villa. Di solito era aperto, con due guardie sedute sopra una moto, che fumavano una sigaretta e si godevano il sole. Stavolta, invece, trovò chiuso. Dall’alto, il cappello verde di un soldato moro spuntava da dietro le mura, si riconobbero a vicenda. Il tedesco biascicò tre parole in un italiano stentato:

  • Oggi no lavoro!

Mario avrebbe voluto gridargli le peggiori parolacce in sardo, ma non aveva senso. Chinò il capo e si finse rassegnato. Mise le mani in tasca e si incamminò, parallelo alle mura del palazzo. Per strada, solo alcuni civili che passeggiavano, allungando il passo quando si trovavano davanti all’ingresso della base tedesca, come di consueto. Si fermò al palo dove si era arrampicato la sera di Natale, levò la giacca e ripeté la stessa operazione. Arrivato in cima, notò che tutto era rimasto invariato, ma dei soldati non vi era nemmeno l’ombra. Dalla parte opposta vide di spalle la guardia che stava al cancello, sedeva sopra un’impalcatura fissata alle mura. Dinanzi alla casa, invece, la gabbia del Sanbernardo era aperta e disabitata. Sentì un colpo al cuore. Si lasciò andare sul palo e scivolò giù. Febbraio era entrato da una settimana, e con lui anche una lieve brezza gelida che giungeva dai monti. Il cielo era limpido, ma con l’abbassarsi del sole, il freddo si faceva sentire eccome. Continuò a camminare, incedendo senza meta, come se stesse inseguendo le punte dei suoi piedi, pensando continuamente alle zampe del suo cane, quelle enormi e possenti racchette da neve, che immaginava lasciassero le orme anche quando camminava sul lastricato. Cominciò la salita, non smise di guardarsi le scarpe, intanto la strada si faceva più ripida, attraversò delle vie strette, sferzato dal vento che si incanalava e diventava più violento. Senza accorgersene era giunto sul belvedere in cima al colle, e si ritrovò affacciato a una balconata. Il respiro corto per la lunga passeggiata fu spezzato da ciò che vide. In lontananza si innalzava una enorme coltre di fumo, le luci della fiamme oramai quasi domate ricordavano un caminetto a tarda notte, quando smetteva di essere alimentato. L’aeroporto militare, da tempo sede dell’aviazione tedesca, era stato bombardato, pensò che le truppe fossero state trasferite laggiù, e con loro anche il suo migliore amico.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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