Era già mattina inoltrata, quando Mario lasciò la sua stanza. Gli zii mangiavano in silenzio in sala da pranzo, il cibo ricevuto la sera prima era quanto gli bastava per ignorare il loro nipote. Uscì di casa, tese la mano ma fu inutile, Il Brigante non era più al suo fianco. Si mosse verso la legna accatastata in strada, la raccolse e la impilò a fianco alla porta. Tirò via le schegge e i rimasugli che si erano disseminati a terra. Iniziò a camminare strisciando i piedi, testa bassa e sguardo fisso al suolo. Recuperò il foglio accartocciato che aveva gettato la sera prima. Maledì gli dei dell’Olimpo: lesse l’orario in cui era convocato al quartier generale tedesco, ancora tre ore lo separavano dall’incontro. Continuò a passeggiare in tondo, imitando inconsapevolmente le usanze del suo cane. Aumentò la velocità, diminuendo il raggio di quel circuito immaginario, ma non poté resistere oltre.

Il comando dell’esercito tedesco si era insediato in un edificio requisito a una famiglia di ricchi costruttori, da cui tanti anni prima i suoi genitori avevano acquistato la casa dove viveva. Bastava attraversare due isolati e ci si ritrovava di fronte al grande giardino sul retro della villa. Discendendo, da lontano si poteva ammirare il tetto spiovente e le colonne neogotiche che sorreggevano l’ampio atrio che costituiva l’ingresso e l’accesso al cortile interno. Una volta giunto sotto il muro era impossibile vedere oltre, ma Mario non poteva aspettare.

Costeggiò il versante destro delle mura, fino ad arrivare al punto in cui queste terminavano con l’altro edificio cui erano attigue, ma facente parte della stessa proprietà. Fu lì che scorse una possibilità per intrufolarsi all’interno: un lungo traliccio di legno, distante mezzo metro dal muro di cinta. Lo abbracciò con mani e piedi e cercò di arrampicarsi, ma nulla, scivolava subito di sotto. Si tolse la giacca, la attorcigliò al palo come una fune e riprovò salire; altro fiasco. Non si diede per vinto, si allontanò di qualche metro e cercò di studiare una soluzione. Improvvisamente ricordò di quando con Luigi e Andrea, i suoi amici pastori, dovevano ingegnarsi per fare i loro lavori agli ovili. Nelle loro rimesse avevano, sì e no, una zappa e qualche secchio, quindi ogni piccolo intervento di manutenzione alle strutture si trasformava sempre in un’impresa lunga e pericolosa. Poggiò la schiena sul legno e i piedi al muro, cercò di fare forza sui talloni, e piano piano cominciò a salire, strisciando la giacca e riempendola di schegge. L’operazione richiese tutte le sue forze, ma alla fine arrivò in cima. Si diede lo slancio e si appese, poi si tirò su e si sedette. Si guardò attorno. L’enorme casa era sviluppata su due piani, un’ampia porta dava l’ingresso al cortile, in cui dalla strada si poteva accedere da un cancello che era presidiato da due piantoni. Una parte del giardino era stata occupata con dei tendoni che riparavano delle lunghe tavolate, parzialmente coperte alla visuale di Mario. Da una tenda più piccola spuntava un comignolo di metallo da cui fuoriusciva una calma e flebile nube di fumo. In lontananza scorse due soldati con i pantaloni della divisa e una maglietta, intenti a lavorare di martello, chiodi e viti su una recinzione di metallo. Un terzo militare stava approntando una grande cassa, e al suo interno erano già adagiate delle vecchie coperte. Restò a osservare i lavori, nessuno fece caso a lui. Iniziarono ad arrivare dei gruppi di soldati, e poi altri ancora. In un batter d’occhio le tavolate si riempirono, mentre il fumo del comignolo si faceva più intenso e un odore di carne si diffondeva oltre le mura, il più grande insulto alla popolazione affamata che elemosinava il cibo al razionamento serale. Arrivò un uomo in alta uniforme, e Mario lo vide scomparire sotto le tende, era il Colonnello Weber. Tutta la mensa si azzittì e dopo un istante si udì un breve discorso in lingua tedesca, poi un applauso e di nuovo silenzio. Fu la volta del Tenente Uhlm. Fece tre passi comparendo dalla porta aperta della villa, poi si immobilizzò, qualcosa lo attirò dentro. Gridò nella sua lingua, si notarono i suoi movimenti frenetici, tornò fuori e strattonò. Mario Il Brigante lo seguiva con passo stanco, il muso rivolto a terra, ma non annusava nulla. L’esercito che li attendeva ai tavoli non emise un fiato, si limitava ad osservare il goffo avanzare dell’ufficiale, con quella bestia che non voleva saperne di ubbidirgli. Dalla tasca estrasse qualcosa che doveva essere del cibo, la agitò sulla mano e poi gliela lasciò cadere sopra. Il Sanbernardo non si scompose, la fece scivolare lungo la sua testa e cadere, nemmeno l’annusò. Questo era troppo. Mario, con il formicolio alle gambe per il tempo trascorso a sedere lassù, si alzò in piedi sul muro e gridò:

  • Mario! Ridatemelo!

Il frastuono di settanta uomini che si alzavano fu assordante. Il vociare in tedesco sembrava il boato di un gol alla partita di pallone. Mario cercò di coordinarsi per provare a saltare di sotto, ma prima che potesse muoversi, tre soldati lo raggiunsero dall’esterno, con le armi spianate. Ancora delle frasi incomprensibili. Mario non gli diede la minima considerazione, vide il suo cane che tirava il guinzaglio per dirigersi verso di lui, che nel frattempo cercava di concentrarsi e calcolare l’altezza, senza la minima idea di cosa fare una volta dentro.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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