Uscรฌ, cercando di tenere il suo nuovo amico per la collottola, ma capรฌ subito che era inutile: il piccolo Sanbernardo lo seguiva come unโombra. Arrivato davanti a casa, vide zio Angelo che lo aspettava con le braccia conserte. Quando si accorse del quadrupede, fece una piccola smorfia:
- Beh? Era meglio un maiale, ma in tempo di guerra ci accontentiamo.
- Lui รจ mio amico, e non si tocca. Ecco i viveri per oggi.
Gli porse lโinvolucro. Dalla pagnotta mancavano dei tozzi, dati in pasto al cane lungo il tragitto. Zio Angelo guardรฒ il contenuto, prese una mela per sรฉ e ne lanciรฒ una a suo nipote, poi entrรฒ dentro, dicendo:
- Questa รจ per merenda. A pranzo facciamo il pane con lโacqua.
Mario trovรฒ una vecchia corda. Prese un coltello e si mise al lavoro. Con la mano sinistra afferrรฒ un lembo e tirรฒ forte, la corda si tese: dallโaltra estremitร il cane lโaveva azzannata e la stringeva come se al posto delle mandibole avesse due tenaglie da operaio. Ad ogni strattone di Mario che lavorava con la lama, la bestiola emetteva dei piccoli latrati, come un giocoso grido di battaglia. Pochi minuti e collare e guinzaglio furono pronti. Restava unโultima cosa: come lo avrebbe chiamato? Kammamuri? Sandokan? Yanez? Nessuno di questi gli parve adatto.
Prima della guerra, Mario non aveva tanti amici, non della sua stessa etร . A scuola riusciva ad andare avanti studiando il minimo necessario, cosรฌ le sue settimane erano un lungo e noioso intervallo tra un sabato e lโaltro, quando partivano fuori cittร per trovare gli amici. Cโera Franco, un omone enorme, con la barba perennemente incolta e un mento capace di spaccare il pugno a un campione di pugilato. Poi Ennio, che era il piรน anziano e non la smetteva di parlare di quanto fosse stato bello prima che perdesse i capelli. Luigi e Andrea, infine, erano due cugini che assieme gestivano un piccolo allevamento di pecore. Erano i compagni dโinfanzia di suo padre, e i suoi veri zii, anche se la fame e la disoccupazione li avevano costretti a dividersi. Passavano insieme delle fantastiche giornate, a lavorare, bere un bicchiere o stare seduti davanti al fuoco. Il ragazzo, con loro, aveva imparato ad arrampicarsi sugli alberi, a dirigere un gregge e mungere le bestie, a potare le piante, tutte attivitร che ai bambini di cittร erano sconosciute. Alla sera, i grandi raccontavano a Mario le storie dei banditi sardi e delle loro scorribande sui monti. Del loro rifiuto verso i padroni e le regole imposte, dellโindole avventuriera e dellโamore per la natura. La vita lontano dalla folla che inonda le strade, dai palazzi e dal baccano, basata sulla sussistenza e sul godere dei frutti del proprio lavoro, giorno per giorno. Tutte le domeniche, padre e figlio tornavano a casa con ogni ben di Dio: il pescato durante le gite al mare, la frutta ricevuta in cambio dellโaiuto ai campi, la carne e il latte.
Ora che suo padre non cโera piรน, e chissร se sarebbe mai tornato, la sua casa era diventata vuota e priva di vita. Seppur privo di ogni stimolo dallโesterno, Mario continuava a sognare di poter essere qualcuno di cui un figlio, o un nipote, un giorno avrebbe raccontato le avventure.
Il ricordo di un padre partito in guerra, la nostalgia della vita che fu, i racconti a metร strada tra il reale e il mitologico, avevano attecchito nella sua mente ed erano divenuti una sorta di idealizzazione di un passato che non sapeva piรน se lo avesse vissuto o se fosse frutto dellโimmaginazione. Quando la guerra arrivรฒ anche in Sardegna e le scuole furono chiuse, aveva iniziato a leggere i libri dei Pirati della Malesia, e la penna di Salgari, nei suoi pensieri si era mescolata con le parole del suo vecchio e dei suoi compari.
Sua madre era morta di malaria poco prima che muovesse i primi passi, gli unici parenti di sangue che gli erano rimasti erano una zia materna e suo marito. Sebbene non gli importasse nulla del loro unico nipotino, quando il padre gli aveva scritto del suo imminente arruolamento, avevano accettato alla richiesta di trasferirsi, perchรฉ un tetto sopra la testa, di quei tempi, era un lusso che non tutti potevano permettersi. Di fatto, il padrone di casa era Mario, ma i suoi nuovi genitori lo trattavano come un ospite sgradito, forti della certezza che il loro cognato non avrebbe mai fatto ritorno. Erano ignari del grave errore che avevano commesso a lasciare lโagro dellโentroterra.
A Mario e al suo cane bastarono due giorni per conoscersi a memoria. Passavano le giornate in strada, a giocare coi sassi o allโavventura. Il Sanbernardo era docile e intelligente; quando non era al guinzaglio, non si staccava di un millimetro dal suo padrone, quando invece veniva legato, il suo istinto gli comandava di tirare, come a voler spezzare le briglie che gli erano imposte.
La mattina del terzo giorno dopo il bombardamento, se ne stavano sotto al sole, seduti sullo scalino dellโuscio di un vicino. Dinanzi a loro, nessun movimento che potesse ricordare la presenza umana. Quel pezzo di cittร era deserto, e gli ultimi a popolarla parevano essere proprio loro.
Un lieve cinguettio di uccelli rompeva le frequenze del rumore del vento, che spostava i cumuli di polvere e le foglie morte ai bordi della strada. Mario si perse nei suoi pensieri e socchiuse gli occhi, la mano sinistra poggiata sulla pancia del cane. Come sempre, era seduto sui suoi piedi e gli faceva la guardia, tirando fuori la lingua per cercare di raggiungerlo con una leccata, guardandolo con le sue grandi nocciole marroni dallโespressione supplichevole. Sognava di rivivere i bei momenti di spensieratezza del passato, sognava di fargli conoscere la libertร , perchรฉ lui era lโunico essere vivente con cui condivideva il dolore dellโabbandono e il rifiuto per qualsiasi catena. In effetti, era lโunica creatura al mondo insieme alla quale sentiva che il tempo era sempre guadagnato, e mai perso. Fu proprio allora che si rese conto di aver trovato il nome che non gli aveva mai dato. Aprรฌ gli occhi e lo guardรฒ. Mario accostรฒ i piedi alle sue zampe, come a voler ammirare lโimponenza e le forme, fatte apposta per andare, andare lontano e non sprofondare mai, sopra un metro di neve o su un lago di fango. In quel momento realizzรฒ che il suo Sanbernardo era identico a lui, nellโindole e nellโaspetto. Su di lui riponeva tutti i sogni e le aspettative per la vita, in quellโepoca della sua esistenza in cui nessuno al mondo, nel pronunciare il suo nome, declinava un tono dโaffetto, forse la cosa di cui piรน sentiva la mancanza. Per tutti questi motivi, lโunico nome che poteva portare doveva essere quello del suo amico piรน fedele.
Si alzรฒ, piegรฒ la schiena e si chinรฒ, posรฒ un dito sul naso di quellโanimale che vedeva come il suo gemello, poi disse:
- Mario, ecco qual รจ il tuo nome. Mario il Brigante โ e il cane rispose sbuffando e mugugnando.
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<spanxmlns:dct=”http://purl.org/dc/terms/” property=”dct:title”>Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi รจ distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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