Lo sanno tutti, perché di lui parlo come se conoscessi Robert Smith.
Ho un amico che fino a diciotto anni ha vissuto a Parigi, ma é nato a Cagliari da mamma sarda e papà russo. Per questo è di madre lingua italiana, francese e russa. Ogni estate veniva a Cagliari in vacanza, nella piccola casa al mare dei suoi nonni, assieme a tutti i parenti, tra cui i suoi cugini, come lui mezzosangue, ma in questo caso italo norvegese.
Anni dopo, quando in televisione vedevo le discussioni in parlamento europeo, notavo parecchie affinità con i pranzi e le cene in casa dei miei amici russo-franco-scandinavo-sardi, dove spesso avevo la fortuna di essere invitato. Quando si discuteva a tavola, la lingua comune era l’italiano, ma non era raro che russo e norvegese vi si mescolassero, e a turno i più generosi provavano a tradurre per tutti.
Questo mio amico si chiama Sasha, e lo devo a lui se oggi so dire “buonanotte” in russo e conosco una buona quantità di insulti in gergo parigino. Ogni fine scuola lui arrivava con dieci centimetri d’altezza in più, nuove sfaccettature caratteriali e mille storie da raccontare. Eh sì, perché se io vivevo in un quartiere di una frazione che si chiama Pirri, lui abitava nel Quartier Chinois di Parigi, al confine con la banlieue. Ne conosceva di persone particolari, ne vedeva di cose strane, e ogni anno portava con sé qualcosa di nuovo. Insomma, per lui nove mesi passavano veloci come per me, ma il suo percorso era una strada panoramica tutta curve e tornanti, il mio era un saltar da una casella all’altra nel tabellone del Monopoli. Era una persona riflessiva e calma, amante di Tex, degli Apaches e di Geronimo e Victorio.
Passavamo interi pomeriggi a correre nella strada sterrata scalzi e con un arco in mano. Oppure nel bagnasciuga a fingere di combattere come in un Picchiaduro della Capcom. Aveva un discreto livello di sopportazione, per questo mi divertivo a rompergli le scatole nei momenti di noia. Gli tiravo la sabbia, le pietroline dentro la maglietta, gli facevo domande a ripetizione.
Una volta mi stava parlando di un suo amico di Parigi del quale non ricordava il nome italiano.
– Non mi ricordo il nome, suggeriscimi dei nomi italiani…
– Enzo? Luigi? Sergio?
– No, dimmene degli altri.
– Enzo, Luigi, Sergio.
– Ho detto di no! Dimmene altri!
– Enzo, Luigi, Sergio.
– Smettila, così non mi fai concentr…
– Aspe’, zitto, te li dico io: Enzo, Luigi, Sergio.
E così per mezzora. Io continuavo con quei tre nomi e lui si innervosiva perché gli impedivo di ricordarne altri.
– Enzo, Luigi, Serg…
– Dí un’altra volta Enzo e ti prendo a colpi di pantaloni.
E nel mentre mi mostrava i jeans con la cinta che si stava sfilando di dosso.
– Enzo, Luig…
E mi beccavo una cinghiata nella schiena.

Durante l’inverno ci scrivevamo, ed io, anche in forma epistolare, continuavo a punzecchiarlo: nella facciata dove andava inserito il destinatario scrivevo sciocchezze come “Per sua Eccellenza Santità senza Peccato e pieno di donne Sasha. Avenue de Choisy…”. Ci raccontavamo delle vicissitudini coi compagni di scuola, delle prime esperienze amorose, delle prime sbronze. Una mattina mi scrisse una lettera mentre era in punizione fuori dall’aula, con la professoressa incaricata al controllo dei puniti che cercava di capire cosa stesse scrivendo, e lui, in diretta, mi scrisse “questa qui sta cercando di capire che cacchio sto scrivendo, non si leggono le cose altrui, cogliona!”
Questo era il nostro rapporto.
Ora , ho raccontato un poco di lui, del suo essere cosmopolita già a dodici anni, e ricordo i racconti sui suoi amici musulmani, sui giovani rappers di colore, sulle baruffe tra una scuola e l’altra, sui banlieusards. La sua vita a Parigi che a me sembrava così imprevedibile e divertente.
Però, a parte tutto questo, una cosa resta posata in cima ai miei ricordi, come l’insegnamento di un saggio dei cartoni animati.
Era Luglio e Sasha era appena arrivato a Cagliari. Sedevamo su una roccia in mezzo alla vegetazione di Macchia Mediterranea che circondava le villette dei nostri parenti. Un caldo bestiale, versi di uccelli ed insetti, io e lui in silenzio a scrivere sconcezze sulla sabbia o a spezzare rami secchi. Non ci era permesso andare al mare prima delle quattro e mezza, e nemmeno fare baccano durante le ore di riposo. Nessun adulto ce lo aveva suggerito, ma ci era concesso invece imparare qualcosa. Ci era concesso restare a far nulla e starsene un po’ con se stessi a riflettere e fantasticare. Ci era concesso seminare per qualcosa che solo in età adulta avremmo raccolto. In questo caso lascio al lettore capire cosa fui fortunato di apprendere.

– Sasha, a cosa stai pensando?
– Niente, sto pensando che ero a Parigi fino a ieri.
– E quindi?
– Sto pensando che è bello essere qui.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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