Un pomeriggio di Maggio, lo ricordo bene, era una serata bellissima. Il sole era a mezza altezza, e con le maniche delle felpe tirate su, sporchi da capo a piedi dopo ore a correre per le vie, trovammo un nuovo tesoro. Non pesava come l’oro e non ne valeva le pecunie, ma per noi era altrettanto prezioso. Erano purtroppo le sette e mezza, e il coprifuoco era per le otto. Ci trovavamo a due isolati dal nostro, in una strada dove non passavamo mai. Il marciapiede era largo cinquanta centimetri, poi iniziava una distesa di fiori gialli dal gambo alto e dall’odore sgradevole, ma a noi non dispiaceva. Francesco Grande, per caso, fu il primo ad avventurarvisi dentro, e noi che lo osservavamo, notammo come fosse facile appiattire i fiori e solcare così il percorso. Allora provammo ad addentrarci, camminando come soldati dell’Armata Rossa. Il percorso finiva a ridosso dell’alto muro della villa di un signore. Ci venne spontaneo allora schiacciare i gambi creando un’area rettangolare, protetta a Sud dal muraglione, a Nord, Est e Ovest dai fiori. Il rifugio più bello che avessimo mai costruito. In dieci minuti eravamo diventati i sovrani di una corte sperduta alle pendici del Monte Vettore, eravamo in quattro ed avremmo vinto ogni battaglia, avremmo vinto e vissuto. Quando si è piccoli ogni cosa è così veloce che è facile trovarne il succo, e a posteriori ricavarne il sunto.
La serata purtroppo era finita, ed alle otto meno cinque fummo costretti a fare una corsa per non tornare a casa in ritardo e rischiare di finire in punizione, come militari consegnati per il giorno dopo. Durante la corsa ci ripromettemmo di non parlare a nessuno della nostra nuova base.
Ricordo la mattinata a scuola, a fantasticare su come arredare il nuovo rifugio, cosa portarci dentro, cosa nasconderci, come difenderlo, come chiuderne l’ingresso. Credo che anche Francesco Grande, Francesco Piccolo ed Alessandro avessero fatto lo stesso, tanto che alle quattro, al ritrovo, ognuno aveva delle idee, una vita intera per realizzarle, ma una sera per goderle.

Ci ritrovammo davanti a casa mia, chi con un martello, chi con degli scatoloni di cartone, chi con resti di mattonelle. Stavamo traslocando. Arrivammo al rifugio e lo trovammo come l’avevamo lasciato, allora cominciammo a piastrellare, arredare, schiacciare qualche fiore in più per ricavare nicchie da dove fare la guardia. Francesco Piccolo e Alessandro andarono in missione al canneto poco distante, tornarono con alcune canne che usammo per costruire un cancello, che serviva a poco, perché le maglie erano larghe e riuscivamo a passarci attraverso senza difficoltà. Finiti i preparativi, al calar del sole, cominciammo a progettare la nostra nuova vita. Pensavamo di portare una lavagna per scrivere le strategie di gioco nelle partite di calcio, di nascondere i preziosi gessi che con tanta fatica trovavamo in giro e ci occorrevano per tracciare l’asfalto, oppure di attirare un bambino di un altro gruppo ed aggredirlo. Senza alcun motivo, ma avevamo un rifugio bellissimo, perché non usarlo per appostarci ognuno in un punto diverso, attirare qualcuno e catturarlo?
Quando l’ora di avviarci verso casa era arrivata ed in fila percorrevamo il sentiero per uscire dalla vegetazione attorno alla nostra base, sentimmo lo sferragliare del motore del fuoristrada del padre di Ignazio. Ci guardammo, sbatacchiammo l’uno sull’altro facendo retro front, e corremmo a nasconderci dentro le mura di fiori.
– Le zecche! Scappiamo!
– Aia! Ne ho una nel sedere!
– Io una nel cervello!
Nessuno era stato attaccato da alcun insetto, ma quello era il gioco. E mentre ridevamo e fingevamo di leccarci le ferite dopo aver difeso la città da un assedio, dietro di noi si materializzò Ignazio.
– Ragazzi, che fate?
– Questo è il nuovo rifugio.
– E che ve ne fate?
– Boh, veniamo e decidiamo cosa fare della serata.
Entrò senza chiedere il permesso, noi lo guardammo con sospetto, ma nessuno mosse alcuna obiezione, soprattutto perché dalla tasca estrasse un coltello svizzero e con un accessorio praticò un buco nel muro alle nostre spalle. Raschiò l’intonaco per alcuni minuti, sotto i nostri occhi ipnotizzati, mentre l’ora di tornare a casa passava senza che ce ne accorgessimo. Quando il foro ed una traccia furono completi, Ignazio afferrò le canne che erano poggiate qualche centimetro più avanti, le sistemò in quel rudimentale solco, diede due colpi e le bloccò. Il cancello smise di traballare, il rifugio ci parve inespugnabile e noi deponemmo le armi che impugnavamo: un martello, due canne con la punta limata e un frustino ricavato da una radice.
Quando tornai a casa, mia mamma sulla soglia, con una sigaretta in mano, mi comunicò la punizione: due giorni a casa. Furono le quarantotto ore più noiose della mia infanzia. Riuscii a completare Super Mario Bros II, Gradius ed arrivai in semifinale a World Cup, senza mai passare alla finale: il Perù aveva un tiro segreto che non mi riusciva di neutralizzare.
Il sabato sera dopo la punizione andai a suonare da Francesco Grande, ma nessuno rispose. Allora andai da Alessandro, ma la mamma mi disse che era al catechismo. Mi restò Francesco Piccolo -da cui suonavo sempre per ultimo perché era il più lontano- che venne al cancello camminando lentamente, guardando la punta delle ciabatte.
– Che ci fai ancora in pantofole? Andiamo al Rifugio!
– Tornando da scuola ho incontrato Ignazio.
– Che piacere! Ora mettiti due maledette scarpe e andiamo, dobbiamo fare le pulizie, dopo due giorni d’assenza.
– Ignazio mi ha detto: “Francy, hai presente quel posto che avete costruito l’altro giorno? Ecco, non c’è più”.
– Non dire sciocchezze.
– Me lo ha detto davvero.
– Ma dai, stava scherzando. Mettiti le scarpe ed andiamo a controllare!
Lo attesi alcuni minuti, uscì con un pallone tra i piedi. Corremmo giocando a passaggi come Holly e Benji, alternandoci nello scatto. Arrivammo al rifugio in pochi minuti, distratti dal pallone. Quando arrivammo, però, la realtà ci si palesò inesorabile. Era sparito il sentiero, e con lui le mura del rifugio. Tutto era stato calpestato, la pavimentazione semi sprofondata nel terreno, il cartone sommerso dai gambi.
– Quel maledetto Traditore!
– Sicuramente ha visto che non ci siamo presentati ieri e ieri l’altro, si annoiava e ci ha fatto lo scherzetto.
– Ma allora perché te lo avrebbe detto?
– Per pigliarci per i fondelli.
Francesco Grande e Alessandro arrivarono poco prima dell’ora di rincasare. Ci trovarono a bighellonare seduti su un marciapiede, credo che le nostre espressioni bastarono a spiegargli quanto poco dopo avrebbero visto coi loro stessi occhi.
Nei giorni a seguire discutemmo a lungo sul colpevole, ed il nostro piccolo esercito era spaccato a metà: Francesco Grande e Alessandro non credevano fosse lui il colpevole, io e Francesco Piccolo sì. Fatto sta che eravamo abituati a subire la devastazione dei nostri rifugi, la delusione svanì presto, e Ignazio non s’accorse mai del mio sospetto. Continuava a presentarsi da noi ed aggregarsi ai nostri giochi. Mano mano che l’estate si avvicinava e i lavori di giardinaggio erano più impegnativi, lui arrivava sempre più tardi. Lo vedevamo correre verso di noi e girarsi indietro verso suo padre, tutto sporco e con i suoi scarponi da lavoro, come fosse scappato, e gridava:
– Posso giocare?
Se giocavamo a calcio finiva in porta, se giocavamo a nascondino doveva contare, e così via, la regola era chiara e tutti la rispettavamo, l’ultimo arrivato, male accontentato. Di noi era il più grande, ma sempre il più sfortunato. Sempre in ruoli noiosi, senza mai un soldo per le caramelle, le patatine fritte o il gelato, non aveva mai un pallone, la sua bicicletta era piccola, i vestiti bucati e sporchi. Eppure era un gran lavoratore, subiva da bambino la beffa che molti subiscono da grandi.
Passò l’estate e noi non trovammo nessun altro posto per costruire dei rifugi. Per tre mesi diventammo campioni del mondo, atleti olimpionici, capi di organizzazioni criminali, detective, barzellettieri, finché settembre non giunse. Il mese più brutto, per me. I bambini di Baiano smettevano di affollare le strade, riprendevano a pieno regime le loro attività extra scolastiche. Io non ne feci mai, credo per via del lavoro a tempo pieno dei miei genitori, che mi lasciavano a casa sotto la supervisione dei miei fratelli maggiori.
Ricordo un pomeriggio nuvoloso e fresco. Avevo fatto il giro dei campanelli senza trovare nessuno, mi ero avventurato negli isolati vicini per cercare qualche altro bambino rimasto solo, ma nulla. Tornando a casa sconsolato incontrai Ignazio dinanzi al cancello di casa mia, sopra una bicicletta stranamente nuova e grande. Non ne fui entusiasta, la sua compagnia m’era indifferente.
– Ehilà, che fai?
– Nulla, sto provando la nuova bici di mio padre.
– Tuo padre ha questa bella bici? E perché a te non ne compra una normale, invece di quella Graziella distrutta?
– Perché non lavoro abbastanza, così dice.
– Me la fai provare?
– Non posso, non vuole.
– E mica ci vede.
– Se passa ci vede, è sempre in giro.
Restammo a chiacchierare per una buona mezzora. Ad intervalli irregolari io tornavo a proporgli di prestarmi la bicicletta. Ma lui rifiutava, allora cominciai a trattare:
– Ti presto la mia canna appuntita.
– Non posso.
– Ti do il pallone vecchio, tanto ho quello nuovo.
– Non posso. Se mi dai un milione te la presto.
Intuii di avere qualche speranza.
– Ti do mezza pizza avanzata da ieri.
– Non ci credo che ce l’hai.
– È vero, non ce l’ho. Cosa ti piace?
– Le torte e i cioccolati.
Casa mia era popolata da quattro maschi, quando mia madre tornava con la spesa, noi la circondavamo e le prendevamo i sacchetti, ma non lo facevamo per galanteria, bensì per controllare se avesse comprato qualche leccornia da mangiare. Dolci, salatini, caramelle. Naturalmente questo non avveniva mai, non avevamo la disciplina per centellinarli e dividerli in maniera equa, senza litigare. Era difficile, pertanto, cercare qualcosa che valesse un giro in quella bella bicicletta. Ma ci provai. Entrai in cucina, con Ignazio che mi aspettava fuori. Cercai ovunque, ma non trovai nulla. Frugai nei cassetti della scrivania dei miei fratelli e nei loro zaini. Casa mia era afflitta dalla Carestia delle Patate in Scozia. Dalla finestra guardai fuori, ed Ignazio era sempre lì, che guardava verso la mia casa. Oggi penso che in cuor suo sperasse che io trovassi qualcosa da dargli, con buona pace dei divieti di suo padre. Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo nella borsa di mia madre dove non trovai nemmeno le solite gomme da masticare alla menta, mi venne un’idea. Presi una rosetta col solco di un morso, l’aprii in due, vi spalmai un po’ di burro e spolverai con lo zucchero. Lo portai fuori e lo diedi a Ignazio. Lui prese il panino in mano, nemmeno mi chiese cosa fosse e di cosa sapesse, mi lasciò la bici, addentò il panino e con poca convinzione farfugliò:
– Fai solo un giro dell’isolato e riportamela!
Io annuii, ma sapevo che non sarebbe andata così. Avevo una bicicletta, e avrei potuto usare la mia, evitando così che il padre di Ignazio lo scoprisse, ma l’ebbrezza di imbrogliarlo, di simulare la fuga a bordo di una Ferrari appena rubata, era troppo forte. Percorsi due isolati, pedalai pesantemente, mi fermai a suonare ad alcuni campanelli per poi scappare, sudai un poco, poi girai e tornai verso casa. Decisi di deviare e addentrarmi nella via dove avevamo costruito l’ultimo rifugio, per entrare in mezzo ai fiori calpestati e fare un paio di sgommate. Il pericolo di bucare una gomma non mi preoccupava, tanto la responsabilità non sarebbe ricaduta su di me. Una volta arrivato dinanzi a quelle che ci sembravano le macerie del nostro castello, notai un particolare che nessuno di noi, per tutta l’estate, aveva notato. Restai sgomento per un attimo, ripresi la marcia, ma stavolta lento e svogliato. Girai la curva a destra, poi un’altra a sinistra, infine svoltai nella via di casa, dove Ignazio mi aspettava, magari per prendermi a calci negli stinchi per averlo imbrogliato. Quello che vidi mi paralizzò, ma per inerzia la bici continuò ad avanzare.
Ignazio era disteso a terra prono, con le mani si copriva il volto.
– Do-ve è la bic-ci-clet-ta?
Ad ogni sillaba suo padre gli sferrava un calcio sui fianchi. Ignazio gridava piangendo, tremante:
– Ce l’ha quel ragazzino!
Man mano che la bici mi portava verso di loro, le voci erano sempre più chiare, ma il mio udito era ovattato dal terrore. In pochi secondi che mi sembrarono un’eternità arrivai davanti al cancello di casa mia, sentivo il rumore della marmitta del fuoristrada che in folle e con uno sportello aperto era a bordo strada, non temetti le zecche, ma osservai le ruote, le stesse ruote che avevano schiacciato il nostro rifugio, guardai negli occhi l’uomo, mentre Ignazio continuava a singhiozzare proteggendosi ancora il volto, scesi dalla bicicletta, la tenni dal sedile per potermi mantenere a debita distanza, gliela passai e riuscii a pronunciare un’unica parola, con tutta la reverenza che potei esprimere:
– Grazie!
Lo guardai, guardai colui che distruggeva tutti i nostri rifugi e che costringeva il suo figlio maggiore a scappare da lui per qualche ora pomeridiana.
Fu così che mi convinsi che non era stato Ignazio a distruggere il nostro rifugio e tutti gli altri, perché io, Francesco Grande, Alessandro e Francesco Piccolo eravamo il suo, di rifugio.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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