Abitavo in una località alla periferia di Spoleto, Baiano per l’appunto. Non ricordo con precisione i nomi delle montagne che tagliavano a metà il cielo quando guardavo in lontananza, ne elenco alcune alla rinfusa, un po’ perché il suono mi piace assai, un po’ perché scriverli e pronunciarli m’aiuta nel ricordo, addolcisce la nostalgia: Monte Subasio, Monte Vettore, Pettino.
La strada di casa mia era poco trafficata, dei marciapiedi vecchi e rovinati finivano sui muri di cinta dei giardini. Guardando dall’alto, la lottizzazione si presentava come una enorme serie di zeri, che al centro avevano uno spiazzo incolto. Quello del mio isolato era il più inaccessibile: arbusti intricati, fanghiglia e qualche zecca impedivano a noi bambini di esplorarlo. Per fortuna la nostra era un’eccezione, infatti nelle altre vie le aree incolte erano meno impervie. Il gruppo dei miei amici era composto da Alessandro, Francesco Piccolo, Francesco Grande – li distinguevamo con quell’aggettivo per via della loro età-, e poi altri che a seconda delle annate si univano a noi oppure si distaccavano. Nessuno di noi quattro era compagno di scuola dell’altro. Per motivi logistici dei propri genitori ognuno andava in un istituto diverso.
Il comitato dei residenti aveva stabilito che i bambini potevano uscire a giocare in strada solo dopo le quattro. Prima di quell’ora ci era severamente vietato persino uscire per una passeggiata in silenzio.
Ricordo che quando scoccava la magica ora, uscivo con un briciolo d’emozione: il breve tragitto che divideva il mio cancello da quello di Alessandro lo percorrevo pensando “speriamo che possa uscire”. Di noi, io ero l’unico che non aveva impegni come il calcio, il Karate o il dopo scuola. I pomeriggi più dolci erano quando non dovevo attendere di arrivare al campanello di Francesco Grande per conoscere il destino della serata, ma lo incontravo in strada, mentre a sua volta si dirigeva verso casa mia per suonare.
Inutile specificare che i giochi in cui ci cimentavamo erano, principalmente, il calcio e altre attività sportive, come le corse in bicicletta o l’atletica. Però i giardini, le villette, le poche automobili che circolavano, la libertà d’esprimersi, il tempo d’annoiarsi, la paura di incontrare qualcuno più grande che potesse decidere di darci il tormento per passare qualche ora, stimolava la nostra fantasia. Ci rendeva liberi. Ricordo intere ore, intere giornate passate a preparare un gioco che mai avremmo fatto. Ci divertiva solo l’atto di organizzarlo. Disegnavamo sull’asfalto le linee di un campo da calcio, la segnaletica di una pista da corsa, scrivevamo sui muri con le pietre.
A parte le sfide e gli sport, una cosa ci piaceva assai: i rifugi. “Rifugio”, che dolce parola, forse fu Francesco Grande ad insegnarcela. In pochi anni passati a Baiano ne costruimmo a decine. Una volta riuscimmo a ottenere il permesso dai nostri genitori per fare un pic-nic in quello che in quei giorni avevamo preparato. Era tutto molto semplice, trovavamo un albero coi rami cadenti, ci intrufolavamo dentro, potavamo qua e là, a volte a calci ed altre con una cesoia trafugata dal box degli attrezzi dei genitori, mettevamo dentro qualche pietra e qualche pezzo di cartone per fare i sedili, ed il rifugio era fatto, e fatte anche le avventure.
In alcune occasioni eravamo rumorosi, in altre un po’ irrispettosi, quindi capitava che venissimo cacciati dalla strada in cui giocavamo, o che ci fermassero mentre tormentavamo una pianta. Una cosa che era sicura come la morte, era che i nostri rifugi, col calar della notte, scomparivano. Noi li costruivamo con tanta passione, ma il giorno dopo alle quattro, li trovavamo distrutti o dismessi. Nessuno ci aggrediva o voleva rapirci, ma nonostante questo qualcuno voleva impedirci di sentirci al sicuro. Questo era quello che pensavamo. Che ci distruggessero i rifugi solo per dispetto lo sapevamo in cuor nostro, ma era più avvincente pensarla in quell’altro modo. Infatti ne costruivamo sempre di nuovi, anche se non era così semplice trovare dei luoghi adatti. Gli alberi adatti erano pochi, ma quando li trovavamo eravamo felici, punto e basta.
Per capire un poco quanto sto per raccontare, è bene sapere che le villette bifamiliari che si sviluppavano in quella porzione di pianura erano distribuite in una manciata di vie, fino ad arrivare al punto più estremo della zona edificata, dove il cemento finiva e cominciavano dei campi coltivati. Qui le case erano sparse una ogni ettaro, e i loro abitanti erano come stranieri per noi. I bambini che si avvicinavano erano ben accetti, ma ci parevano di un’altra cultura, un altro mondo. In una delle case sperdute tra i frutteti e le distese di papaveri, abitava una famiglia composta da mamma, babbo, quattro fratelli ed una sorella più piccola. Fui io il primo a fare amicizia col maggiore, appena traslocammo laggiù nell’ottantanove. Gironzolavo da solo in bicicletta vicino a casa. Da lontano, quel ragazzo mi vide e cominciò a passarmi vicino con una Graziella tutta arrugginita. E mi guardava. Aveva cinque anni più di me, la carnagione chiara e i capelli rasati. Dopo un paio di sorpassi, mi si fermò davanti:
– Ascolta, vieni che devo chiederti una cosa.
– Eccomi, che c’è?
– Ma la tua bici va molto?
– Eh?
– Va molto la tua bici?
– Beh, sì, non moltissimo ma..
Non mi fece finire, mi diede uno schiaffo e scappò. Tornai a casa piangendo e urlando come un pollo scannato, i miei fratelli maggiori corsero subito fuori casa per andarlo a cercare, ma non lo trovarono. Il suo rifugio era la sua casa, che si trovava tra i campi, chissà dove. Ancora oggi non sono sicuro di che diavolo significasse “va molto la bici”, ma presumo volesse chiedermi se fosse veloce, e comunque era un pretesto per picchiarmi. Lo incontrammo qualche giorno dopo, e mio fratello lo fermò:
– Perché gli hai dato uno schiaffo?
– Io? Non è vero!
– Come no, è tornato a casa piangendo di brutto.
– Ah, sì, gli ho dato uno schiaffo io.
– E perché?
– Perché mi stava guardando male.
– In che senso ti stava guardando male?
– Eh dai, non l’ho fatto apposta, credevo che mi stesse guardando male.
La discussione si chiuse lì, forse per la nostra fretta di trovare dei nuovi amici in quel posto nuovo, forse perché quel ragazzo ci era sembrato onesto, in fin dei conti era plausibile che lo schiaffo gli fosse scappato davvero senza che lui potesse farci nulla. Da quel giorno, infatti, divenne nostro amico. Non proprio un amico da cui andare a suonare alle quattro, ma pur sempre un amico. Ricordo che scoprimmo dove abitava solo dopo tanti anni. Era sempre lui che veniva da noi, e quando tornava a casa spariva nella strada bianca e nessuno sapeva dove andasse. Non ci invitò mai. Si chiamava Ignazio.
Suo padre guidava un vecchissimo fuoristrada nero con gli sportelli color vaniglia. Quando passavano a bordo di quell’enorme macchina, non ci salutavano, Ignazio fingeva di non conoscerci. Il fuoristrada aveva la marmitta difettosa, lo sentivamo arrivare da lontano, e dato che proveniva dai campi, giocavamo a immaginare che fosse pieno di zecche, dovevamo nasconderci per non esserne aggrediti.
La sorella minore, per pochi mesi, aveva frequentato la mia stessa classe in prima elementare. Una sera la incontrai in strada, era con suo padre, la salutai ma non mi rispose. Il giorno dopo a scuola mi disse di non salutarla mai più in presenza del suo vecchio. Era l’unica che non lavorava. Gli altri fratelli, chi più chi meno, aiutavano l’uomo nei lavori che faceva per il condominio. Piantava i fiori negli spazi comuni, puliva i marciapiedi, faceva le manutenzioni al depuratore condominiale. I suoi figli sembrava lavorassero tanto, eppure andavano in giro con l’aria di chi a mala pena aveva i soldi per mangiare. Quando i nostri genitori ci davano mille lire per il gelato, Ignazio restava in disparte, quando facevamo le collette per comprare le magliette per giocare a calcio, loro non partecipavano, quando facevamo le bancarelle davanti a casa e a vicenda compravamo e vendevamo i nostri vecchi giocattoli, loro non avevano nulla da vendere, e non compravano mai. Fummo crudeli a volte, li schernivamo per tutto questo.
Una volta eravamo a tavola in famiglia, e mio padre raccontò:
– Ieri tornavo da lavoro, davanti a me si ferma il fuoristrada del giardiniere e dal sedile del passeggero scende Ignazio. Va verso un tombino, poi torna indietro.
– Come mai è tornato indietro?
– Dal tombino fuoriuscivano liquami fognari.
– E poi che è successo?
– Quando era vicino al fuoristrada, il padre si è sporto e gli ha gridato di andare. Lui ha chiesto “per favore, non mi puoi dare almeno un guanto?”, e il padre “vai e zitto, sturala e poi ti lavi con la varecchina!”.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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