Nell’Autunno del 2002 frequentavo il mio primo anno d’Università a Perugia. Mi iscrissi alla facoltà di Storia e Informazione, senza sapere cos’avrei voluto fare dopo gli studi, senza sapere se sarei riuscito ad appassionarmi al piano d’esami che andavo configurando, l’unica cosa che contava era scegliere la facoltà a più basso contenuto di discipline scientifiche possibile. Manco a dirlo, il primo esame che sostenni fu uno scritto di Economia Generale. Un laureato in Fisica mi riderebbe in faccia per averla ascritta tra le materie scientifiche, ma per me, che all’infuori dell’Aritmetica e dell’Algebra basilare è tutto un universo odiato ed ignobile, studiare paragrafi dal titolo “La curva della domanda”, “Il calcolo del Prodotto interno Lordo” eccetera, era insopportabile. Naturalmente venni bocciato nonostante avessi risposto in maniera piuttosto corposa a tutte le domande. Sarebbe bello oggi poter rileggere quante baggianate avevo scritto in quel foglio.
Comunque, quello fu solo un pre esame d’Ottobre, le sessioni invernali si sarebbero aperte a Gennaio. A Dicembre ero ancora una matricola, con nessuna esperienza di prove orali sostenute a tu per tu con un professore, ed un bagaglio di maturità che poteva essere riassunto in un concetto, che peraltro era l’unico che avevo nella mia testa: sono qui a Perugia perché voglio trovare al più presto una fidanzata.
Questo era lo scenario in cui, giorno dopo giorno, lezione saltata perché avevo sonno dopo lezione saltata perché avevo sonno, il mio corpo giovane e pieno di stupidità che vagava per il capoluogo umbro, si avvicinava al mitico Natale Studentesco. In cosa consisteva questa manifestazione?
Gli studenti fuori sede, si sa, a ridosso delle feste principali tornano dalle proprie famiglie d’origine. Gli auguri vengono scambiati alla stazione prima di prendere il treno, oppure con un messaggio alla mezzanotte del Ventiquattro. Ma non per il gruppo di mio fratello Maurizio. Quando io giunsi a Perugia, essendo loro avanti di tre o quattro anni, oramai non vivevano più alla casa dello studente dove si erano conosciuti. Io, dal canto mio, non ero beneficiario degli alloggi statali, e quindi persi tutta la meraviglia di un collegio in un certo senso simile a quello dove avevo passato l’adolescenza in quel di Spoleto, ma con la differenza che orari, restrizioni e proibizioni erano ad esclusivo appannaggio del senso di responsabilità degli occupanti, e del loro imprevedibile stato psico fisico causato da alcool ed affini. Pertanto il loro gruppo era una sorta di continuazione di quella che ai miei occhi, poteva essere la Famiglia. Soltanto, era enormemente più allegra. Ne osservavo le favolose dinamiche senza poterne fare parte, nonostante fossi sempre ben accetto tra loro. Non so chi fosse l’inventore, ma il loro Natale era qualcosa di ignoto, per me. La data fu fissata per il diciannove Dicembre 2002, a casa nostra. Vivevamo in un signorile e tranquillo condominio in via Quieta, a pochi minuti dal Corso Vannucci. Avevamo il riscaldamento condominiale centralizzato, due coinquiline orientali, una giapponese ed una del Kazakistan, una cucina mediamente grande, un altro coinquilino di San Severo di Foggia che era la persona a cui veniva più piacevole fare i dispetti e poi scappare perché era troppo forte per resistere alle sue botte: inutile dire che la nostra casa era perfetta.
Facemmo una colletta, con cui acquistammo cibi e bevande, così allestimmo un buffet sul tavolo della cucina. Eravamo tutti più o meno squattrinati, e certi banchetti lussuosi era raro che potessimo apprezzarli, quindi ognuno sgridava l’altro quando si lasciava prendere dalla tentazione e rubava qualche pietanza dai vassoi.
Io mi assentai per un’ora. Il momento clou di quella festa era lo scambio dei regali. Se si pensa subito ad una schiera di persone che riserva un pensiero per ogni commensale, oppure solo per gli amici più stretti, si va fuori strada. Ogni persona era tenuta a portare uno ed un solo regalo, già incartato. Ogni oggetto veniva numerato, e in un contenitore venivano gettati dei bigliettini contenenti altrettanti numeri, come una lotteria. Dopo pranzo quindi, ognuno avrebbe estratto un numero e scartato il regalo che la sorte gli avrebbe riservato. Il mio regalo lo comprai quella mattina, quando un poco emozionato e privo di idee mi ero recato in Piazza Partigiani ai mercatini natalizi. Dopo circa un’ora di indecisione avevo acquistato un elicottero in legno pilotato da un improbabile pupazzo con gli arti fini e la testa tonda, attaccato ad un filo a molla. Tornai a casa imbarazzato per la paura di non avere scelto il regalo all’altezza, ma la tensione riguardava un’altra cosa: partecipare alla loro intimità, riuscire a farne parte senza avvertire quel senso di inadeguatezza che ancora oggi è mia prerogativa.
Il banchetto, una volta pronto partì non senza intoppi, come ad esempio la grande idea di una commensale di andare a comprare le sigarette proprio nel momento in cui ci accingevamo a prendere posto a tavola. Mangiammo accompagnando ogni boccone con le più stucchevoli canzoni Natalizie, ci prendevamo gioco delle usanze familiari scimmiottandole con la voglia di viverle, non di rifiutarle. In sostanza, avevamo voglia di stare insieme, di sentirci uniti perché era Natale, anche se lo facevamo con una nota di sarcasmo in ogni gesto e parola. Naturalmente sbaglio ad usare la prima persona plurale, perché io, più che partecipare, assistevo.
Dimenticavo: dopo pranzo avevo la partita di calcio per il recupero di campionato tra la Don Bosco e il Sant’Enea. Immaginate in che condizioni mi presentai a giocare.
Il pranzo, in quell’atmosfera di goliardico e bianco Natal, volse al termine intorno alle quattro del pomeriggio, e finalmente iniziammo la lotteria. Ho deciso di scrivere oggi questo racconto perché è oggi che mi è tornata in mente una cosa che non sopportavo di aver dimenticato: il regalo che ricevetti.
Non ricordo che numero pescai, ma finalmente ricordo che il pacchetto conteneva un posacenere a forma di tartaruga in terracotta dai colori dell’arcobaleno, e chi lo aveva portato era Sebastiano. Oggi non ho più quell’oggetto, ma fu un complemento d’arredo della mia stanza per tutto il periodo universitario, ed io non ho mai toccato una sigaretta. Il mio elicottero di legno invece toccò al mio omonimo, Riccardo.
Spero di avere scritto un racconto piacevole, almeno quanto è piacevole avere finalmente ricordato, così per caso mentre passeggiavo vicino a casa, cosa ricevetti in una delle volte in cui qualcuno, per davvero ebbe il piacere ad accogliermi in una Casa. E, specie in età adulta, non è una cosa semplice, se ci pensiamo.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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