Due fratelli si trovano in galera, sconsolati ma non troppo. Fanno due chiacchiere e fumano un sigaro. La città in cui vivono è sconvolta da una serie di omicidi, oltre ai quali, durante le indagini, emergono le storie della desolazione giovanile nascosta dietro ai bei vestiti, ai visi candidi, la pelle chiara e liscia, i sorrisi con zigomi rigonfi di vitalità e giovinezza.
Twin Peaks, anche dopo l’arrivo dell’FBI, rimane un paesello sperduto da qualche parte, su al nord. Lo sceriffo, il giudice, la barista e l’imprenditore. Tutti si conoscono, ognuno ha la propria vita e la propria esistenza, che sembra inserita in un circolo di vita molto più ampio, ma invece affonda i propri interessi e movimenti nella piccola realtà provinciale. Ecco perché, in molti casi, qualcosa è nascosto dietro la vita di ciascuno.
È la dimensione paesana in cui ogni vita cerca il proprio sbocco, è l’ambientazione fredda, è il silenzio e l’isolamento di ogni singola casa, ciò che mi affascina di più di questo film. Il contrasto, il messaggio nascosto dietro segnali visivi ben chiari, come la completa mancanza del sole, ergo la completa mancanza delle ombre degli oggetti e delle persone, ombre che, al contrario, sono celate dentro ogni personaggio e solo la mente superiore dell’agente Cooper riesce a far venire a galla.
E poi, gli espedienti narrativi e scenografici, i suoni dentro una sequenza, la meticolosità gestuale degli attori, l’apparente lentezza d’azione volta a scoperchiare l’animo e la funzione di ogni comparsa.
Infine, oggi, quando ho rivisto questa puntata, ho capito.
I lestofanti, mannari affaristi fratelli Horne. Loro che pensano solo al profitto, alla ricerca dell’affare con ogni sotterfugio, al piacere sessuale profano. È a loro che David Lynch, aiutato dal genio del musicista Angelo Badalamenti, riserva il fulcro di questa fantastica serie tv. È con loro che si decide di scoperchiare la pentola e suggerire cosa muova le fantasie del genio del regista. Dal nulla, mentre si interrogano su come venir fuori da quella brutta situazione, chiusi in galera, il fratello minore, il più pazzerello, vede un letto a castello. Un oggetto così strano, che oggi, nelle nostre case non si vede più. Io però lo ricordo bene, io ci ho dormito per tutta l’infanzia. So bene cosa significhi avere un letto a castello nella propria stanza. Condivisione e fratellanza, fiducia e rispetto, solidarietà. Chi ha un letto a castello non soffrirà mai la solitudine, la paura del buio, un fratello sarà sempre sopra o sotto, e tu ti sentirai al sicuro.
Ma non si ferma qui il messaggio dell’artista.
“Ti ricordi Louise Dombrowski che ballava sul tappeto con una torcia in mano?”.
Per un minuto, tutto passa in secondo piano. Il ricordo e la nostalgia, la felicità di aver vissuto, la felicità di aver memoria, diventano gli unici padroni della scena, della vita. Una donna al buio, che balla dinanzi a due bambini affascinati ed eccitati, una musica che è malinconia, che è passato, che è movenze sinuose e lente, che è gonna e calzini bianchi, capelli a caschetto e pelle di ceramica, come Louise.
Poi, alla fine, una risata:
“Eheh, oh, cosa è stato di noi?”
David Lynch, come pochi altri, a volte credi che ti legga dentro, e ti disarma, come fece Robert Smith al concerto dei Cure, quando pochi mesi fa assistei al suo concerto, ma questa è un’altra storia.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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