Duemilasettecento lire.

 

  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.

Continuava a ripetermi mio fratello Maurizio. Non la finiva mai. Ogni volta che lo incrociavo, doveva dirmelo. Casa mia aveva un seminterrato dove avevamo la tv più grande e il Nintendo. Era un poco il nostro rifugio. Mia madre non scendeva mai, e se lo faceva, erano cavoli amari, significava che l’avevamo combinata grossa e stava venendo a pettinarci per bene. A suon di aggettivi nella sua lingua madre sassarese e qualche ciabatta.

  • Facchini di porto! Landrastus! Bastasciusu!

Il fratello maggiore, che non amava i videogiochi -tranne una parentesi di dipendenza compulsiva da Super Mario Bros che durò fino a quando non arrivò all’ultimo quadro- aveva il suo stereo di fianco ai divani. Non avevamo il permesso di toccarlo, potevamo giovarci di quella meraviglia a cassette e giradischi, solo quando lo usava lui. Fu per merito suo che mi appassionai, oltre a Vasco Rossi e al Cagliari Calcio, anche ai Clash. Non li avevo mai sentiti nominare, ma una volta mi disse:

  • Richi, vai al mio stereo e prendimi il disco con scritto CLASH.

Per un bambino di otto anni quale ero io, il suono della parola CLASH era troppo accattivante, oltre alla mia adorazione per il fratello più grande che era sempre pronto a risolvere alcuni dei miei problemi. Come la volta che, per compito a casa, dovevo scrivere dieci pensierini sul fumo, e mi aiutò lui. Uno me lo suggerì di sana pianta: “pur sapendo che il fumo fa male, mio padre fuma ugualmente”.
Era così scellerato leggere una frase del genere sul quaderno di un bambino delle elementari, che mi ci presero per il culo persino i miei genitori stessi. Io, dal canto mio, non iniziai mai a fumare,  e come causa, il collegamento con quell’episodio mi viene facile, per certi versi.

  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.

Maurizio, che era pigro come un gatto, a volte faceva lo sforzo di scendere dalla sua stanza al primo piano, fino al seminterrato, per il solo gusto di dirmelo. Io piagnucolavo e lui se ne andava soddisfatto.
A volte interveniva Manuel, il secondogenito, che nelle controversie familiari tra me e Maurizio -che aveva perso lo scettro del Piccolo di Casa per colpa mia- interveniva per fare da pacere. In realtà era il pacificatore un po’ di tutti. Anche quando Maurizio, che era davvero un rompiscatole patentato, decideva di fare impazzire la mamma. Oggi battendo la forchetta sul piatto durante tutto il pranzo, domani lasciando dinanzi all’uscio la busta della spazzatura che toccava a lui buttare, dopodomani pretendendo di addormentarsi la notte davanti alla tv, invece di andarsene a letto.

Chi ha un fratello o una sorella, ricorderà bene le battaglie campali per decidere chi deve alzarsi dal divano quando la mamma chiama perché le serve aiuto, per i turni a sparecchiare; oppure le strategie che, generalmente i più grandi, attuano per fare in modo che i più piccoli portino loro un coltello, o un oggetto che hanno dimenticato di prendere prima di sedersi.

  • Richi, vie’ un attimo che devo dirti una cosa.

Attraversavo la casa e andavo, curioso ed emozionato, era pur sempre più grande, e ricevere un’attenzione simile era un avvenimento eccitante. Quando ero vicino a lui, infine, diceva:

  • Fai il favore, portami un tovagliolo.

Io scappavo piangendo e lui rideva, magari si puliva il muso nella maglietta, così avrebbe fatto incazzare anche la Vecchia, a cui avrebbe detto che l’aveva fatto per colpa mia, che non gli avevo fatto il favore. Prendeva tre piccioni con una fava.
Ricordo che alla fine, quando ero più grandetto e non ci cascavo più, urlava dalla cucina e nemmeno si affaticava ad inventare nulla:

  • RICHI! VIENI A PORTARMI UN COLTELLO?

E al mio rifiuto sghignazzava, masticando con quel suo fare rumoroso, perché essendo asmatico,  era capace di produrre dei rumori che si avvertivano fino alla lottizzazione confinante con la nostra.

Manuel, invece, con me si divertiva. Diceva di essere fan di Edoardo Bennato: un giorno gli chiederò se era vero o lo diceva per gioco. Fatto sta che io continuavo a dirgli che Bennato era scarso e Vasco Rossi era migliore. Finché non mi accampò la motivazione più ineccepibile, che provava, senza spiragli di obiezione, che in effetti l’autore de Il Gatto e La Volpe, era più bravo del rocker di Zocca:

  • Edoardo Bennato è meglio di Vasco.
  • E perché?
  • Perché Vasco è basso. Se li metti uno di fianco all’altro si vede benissimo. Vasco è basso.

Non dico che mi convinse, ma vacillai non poco.

  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.

Continuava a ripetermi Maurizio. Tutto era cominciato quando una sera, in giro per le vie commerciali,  la mamma decise di comprarci una pizza al taglio. Eravamo solo noi tre. L’evento era eclatante e singolare. Vivevamo in una zona residenziale dove l’unica attività facile da raggiungere per chi non aveva una macchina, era il bar del tennis club. Oltre ad un gelato da mille lire non potevamo aspirare. La pizzetta al taglio era, dunque, una leccornia squisita quanto insolita. Ci avvicinammo alla pizzeria al taglio “Pizza 74”, in via Dante Alighieri. Comprammo la pizza e spendemmo duemilasettecento lire. Mia madre tirò fuori una banconota da cinquantamila, ma la signora Hendrix –la proprietaria, così soprannominata dalla Cagliari nottambula- non aveva cambio, aveva appena aperto e la cassa languiva.
Io avevo già un filo di mozzarella fusa che collegava il mio esofago con la pizzetta che nelle mie mani era oramai a metà. Non potevamo restituirle.
La nostra salvezza fu Maurizio, stranamente. Prese il portafoglio dalla tasca dei jeans, estrasse i soldi esatti e pagò. Mia madre promise che glieli avrebbe restituiti, e non so se lo fece mai. Lui però, per giorni, mi tormentò:

  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.
  • Mi devi duemila e sette.

“Pizza 74” ha chiuso pochi mesi fa dopo anni di leggendaria attività, io non credo di avergli mai reso quei maledetti soldi e mia madre non c’è più da oltre un ventennio.

Le cose cambiano, ma a me rimangono in testa e si ripresentano così a caso, e mi piace scriverle.

 

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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