1983, Costa di Sopra.
Si erano trasferiti laggiù intorno al 1978, l’azienda di papà andava bene, e il mutuo chiesto per riscattarla dai vecchi soci era quasi estinto. Si trovava in una lottizzazione elegante e silenziosa in una periferia non troppo lontana. Un paio d’anni e la baracca sarebbe stata loro. Mezzora di macchina lungo la spiaggia e si era arrivati a Cagliari.
Matteo Angioy giocava col pallone di Natale. Al buon Gesù Bambino ne aveva chiesto uno uguale a quelli che usava Zico ai mondiali, il Tango. Correva dietro quella boccia come un forsennato. Un tocco di interno e uno di esterno, poi passaggio al compagno di nome Muro, bisognava calibrarlo bene, per scavalcare l’odiato avversario Marciapiede, il quale quando la palla vi sbatteva contro diventava un trampolino, e la faceva saltare in qualche giardino con un enorme cane pronto a bucarlo.
Casa di Francesco era a pochi passi, nella viuzza che loro chiamavano “La Curva”. Mancavano due o tre difensori immaginari e la porta era davanti a lui. Erano degli omoni enormi, cattivi, con le gambe pelose e le scarpe in cuoio. Ma Matteo non li temeva, portava palla proprio come il grande Arturo nell’Udinese di Enzo Ferrari. Cambiava direzione spostando il corpo e coprendo la sfera. La toccava decine di volte per rendere più imprevedibile la deviazione della palla nel dribbling . Gli avversari erano davanti, era quasi arrivato. La fantasia gli comandava di fare una bicicletta, scavalcarli e proseguire fino al gol. Certi numeri però non erano da Mondiali di Calcio, e un buon difensore per punirlo di tale affronto lo avrebbe steso a terra con un intervento a piedi pari. Arturo Zico di certo sarebbe stato furbo ed elegante. Avrebbe fintato di andare a destra, guardato a sinistra e toccato il pallone di suola. E così Matteo fece. In un batter d’occhio fu al cancello di Francesco.
– Sono Matte, c’è Franci?
– Sono io, finisco matematica ed esco.
– Ok allora sfido Beckenbauer perché Gigi Riva oggi è in forma. Prima ero Zico ma ora sono Rombo di Tuono.
– Francesco! Forza, in camera!- S’udì dal ricevitore.
Matteo prese in mano la palla, sospirò e tornò alle sue fantasie. Posizionò il Tango a dieci metri dalla barriera. Beckenbauer era in linea e controllava i movimenti dei suoi. Lo guardava dritto negli occhi. Era il più grande dei difensori e non aspettava altro che trovarsi davanti l’asso del Cagliari Calcio. Era stato proprio Franz a sbatterlo a terra al limite dell’area nel mezzo di uno scontro dal sapore legnoso di gomiti e sudore. Riva era posizionato. La barriera tremava e chi vi stazionava avrebbe certamente aperto le gambe per non beccarsi la bomba in un ginocchio. Ma il Gigi Riva impersonato da Matteo decise di prenderli alla sprovvista. Annullò la punizione, corse sulla palla e andò ad affrontare Beckenbauer, faccia a faccia. Aveva già in mente una spallata e un diagonale rasoterra feroce come un aratro trainato a buoi.
Percorse La Curva, che era la strada più larga di Costa di Sopra, dove potevano piazzare le porte senza che i sassi che fungevano da pali fossero troppo vicini al calcio d’angolo. Stavolta però ancora il loro campo non era ancora stato creato, quindi il traguardo a rete era uno dei cancelli delle bifamiliari a bordo strada.
Girò su sé stesso, quei maledetti tedeschi erano e attenti e non si facevano superare facilmente. Ma Gigi Riva era Giggirrivva, il suo nome era sardo con le consonanti raddoppiate, le tattiche le scardinava abbassando la testa e mettendo avanti la nuca per aprirsi un varco. Franz era vicino, lo aspettava gridando alla difesa di salire e tenere gli uomini. Ma quel Gigi Riva non l’ avrebbe mai passata, avrebbe scartato anche Beckenbauer e l’ avrebbe insaccata sotto le gambe del portiere. Un uomo via, due uomini via, poi tre. Ed eccoci, Beckenbauer. Il viso intelligente e le gambe da contadino. Il cancello era vicino, la porta spalancata chiedeva solo di essere riempita con un gol dei suoi. Forza Gigi, puntalo e tira. Puntalo e tira. Cambia passo, puntalo e tira.
____________
Il figlio dei Cannas aveva diciotto anni compiuti da sei mesi. Stava uscendo per raggiungere il resto della comitiva a Bellavista, dove c’era un bar, che era l’unico punto di ristoro per quelli di Costa di Sopra. Uscì dal giardino, non prima di aver dato un osso al suo Pastore tedesco, Black, che si affrettò a nasconderlo nella terra umida. Mise in moto l’Alfa del padre. Partì. Una tosse arrivò dalla marmitta, la frizione era stata lasciata troppo presto. Girò la prima curva, la radio non voleva sapere di incastrarsi bene. L’ avevano pagata un capitale, era così tecnologica che potevi infilarci dentro una cotoletta e leggeva una musicassetta. Provò a ruotare quella specie di valigetta, ma nulla. Intanto il parabrezza si appannava di continuo, la pelle di daino era ormai fradicia. Con la terza era a sessanta, e superata casa di Francesco, girò ancora a sinistra.
Una palla colpì l’automobile. Ne potè leggere la marca stampata sul vetro. Un colpo forte rese silente l’intera via, come se il suono avesse coperto ogni naturale cinguettio d’uccello, placandolo. Nessuna frenata colorava il manto stradale. Francesco uscì di casa con le scarpe coi tacchetti, tutte consumate perché continuava ad usarle sull’asfalto. Dall’uscio aveva visto tutto:
un ragazzo con le mani in testa, un rivolo di sangue che sembrava troppo corto per giustificare l’ immobilità del piccolo corpo dal quale usciva. Fu la prima volta che vide altre persone correre dietro un pallone al posto suo. Dei compiti di matematica l’ avevano costretto alla prima panchina della sua vita in un match sospeso poco prima del suo debutto. Da quel giorno, per tutta la sua carriera da calciatore amatoriale, ogni esclusione dagli undici giocatori titolari sarebbe stato come uno shock.
Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Based on a work at http://otticosolitario.it/.