Una volta mi trovavo in Curva Nord e avevo vent’ anni. Pagai il biglietto venticinque euro, perchè Cellino sosteneva che i tifosi occasionali, che andavano allo stadio solo tre volte l’ anno, dovevano pagarla cara. Io non potevo essere definito proprio un tifoso occasionale, dal momento che quell’ anno feci una cosa come dodici trasferte. Semplicemente vivevo fuori città e quella volta mi trovavo a casa per alcuni giorni di vacanza.
Così su due piedi ricordo Reggio Calabria, dove, errando in silenzio in tre nei pressi della stazione, un vecchietto ci disse “buona partita ragazzi, siet’ cagghiaritani, vero?”. Ricordo che più tardi vedemmo il resto del gruppo entrare. C’ era anche Chicco il Bello, storico e caratteristico Ultras rossoblù che non so perchè fosse appostato nelle cancellate d’ ingresso del Settore Ospiti, sembrava stesse lavorando come strappabiglietti. Gli sbirri cercarono di convincere gli addetti della Reggina Calcio a farmi entrare senza biglietto, così non avrei gironzolato in cerca del botteghino rischiando di creare problemi, ma loro non vollero sentire ragioni, e d’ altra parte io non avevo chiesto di entrare come portoghese, avevo solo chiesto dove fosse la biglietteria. Con chi era con me allora discutemmo un secondo su chi dovesse andare a prendere i biglietti, io mi offrii ma Chicco il Bello intervenne, dicendo “No! Tu non vai, vanno loro due ma tu resti quì.”. Aveva l’ espressione accigliata, non ho mai capito perchè l’ avesse fatto, però gli ubbidii, ovviamente.
Tornando a noi, le leggi sulle restrizioni non erano ancora troppo severe, quindi le bandiere e le due aste riuscivamo a portarle senza problemi, gli striscioni invece dovevamo tagliarli e dividerceli, in modo che ogni pezzo potesse essere occultato dentro la scarpa. I fumogeni invece li portavamo alla vecchia maniera, nelle mutande. Una volta dentro poi potevamo accendere i fumogeni e esporre gli striscioni, che un paio di noi si occupavano di ricomporre con lo scotch perdendosi metà partita. L’ importante era non lanciare nulla in campo, le telecamere di sorveglianza erano già attive.
Affrontavamo la Capolista in una di quelle annate in cui erano piuttosto fortunati, complice anche il fatto che schieravano sei o sette extra terrestri. Vederli dal vivo era impressionante, sbalordivano per determinazione e cattiveria. In qualche modo la loro potenza alimentava il nostro odio.
Nelle partite in casa io volevo sempre stare giù in basso, sotto lo striscione del Gruppo, in questo modo riuscivo a vedere solo dal centrocampo in giù, la porta attaccata alle nostre ringhiere mi era coperta, ma almeno stavo sotto il lanciacori.
Il Cagliari era il Casteddu. Era la squadra che ogni tifoso di provincia spera di poter vedere, di tanto in tanto. Avevamo il medianaccio che si trasformava in incursore e sovente la buttava dentro, avevamo le due ali vecchio stampo, che scattavano sul filo del Fuori Gioco e accentrandosi si trovavano dinanzi al portiere, avevamo il centrale di novant’ anni tutto gomiti e senso della posizione, e un portiere che quasi mai spiccava, anche se il rigorino non era impossibile che lo parasse. In casa eravamo implacabili e il Sant’ Elia era un fortino, come è normale che fosse per una squadra isolana. La Capolista che avevamo davanti portava la sua consueta maglia a strisce e quella sera imponeva il proprio gioco a fatica. In mezzo al campo c’ erano le mine anti uomo e i nostri attaccanti pungevano, anche se poi il Portiere più Forte del Mondo era come sempre puntuale a fermarci.
Avevo bevuto molto, e sventolando il bandierone schiaffeggiavo tutti i presenti a colpi di stoffa, e rischiavo persino di cascare a terra. Un ragazzo di fianco a me invece sventolava rilassato, e io mi complimentavo. Non so dire chi giocò meglio, mi accorsi soltanto che a un certo punto passammo in svantaggio, perchè in Distinti e Tribuna tutti scattarono in piedi per esultare. Maledissi Cellino per non aver quintuplicato i prezzi a quei maledetti che tifavano contro la squadra della loro città. Ricordo che a un certo punto gridai “Abeijon fottitene della palla, che cazzo te ne fotte del risultato, mettila sulla rissa!”.
Arrivati oltre il novantesimo chi ci credeva ancora eravamo solo noi, il resto dello stadio aveva già decretato il risultato finale, ma invece fu un attimo. Noi attaccavamo nella porta che io non vedevo, i ragazzi intorno a me frizzarono con urli d’ incitamento: avevamo rubato una palla a centrocampo. Un secondo dopo vidi apparire una faccia al centro di due teste, poi tutti mi rovinarono addosso e capii. Buffon era stato battuto, Thuram e Zebina erano due nani e Gianfranco Zola aveva incornato dal limite dell’ aria, e mi piace immaginare che in quell’ istante in cui aveva fatto capolino dietro lo striscione mi abbia persino fatto l’ occhiolino.
La Juve Capolista fu fermata al Sant’ Elia, il Milan le si avvicinò e noi eravamo sempre noi. Noi eravamo tifosi di una neopromossa che non era in lotta per salvarsi. Noi eravamo tifosi di una neopromossa che giocava assatanata e mostrava due o tre schemi d’ attacco e non aveva un centravanti. Noi eravamo tifosi di una neopromossa e fino a metà campionato in trasferta le avevamo perse tutte. Noi eravamo tifosi di una neopromossa e il nostro scudetto era fermare la Juventus.

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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